Di Serge Latouche, professore emerito di economia all’Università di Orsay, obiettore di crescita. Traduzione di Gloria Germani del Gruppo Internazionale. Una prima bozza di questo testo è stata pubblicata sulla rivista belga della decrescita Kairos, giugno-agosto 2022.

La decrescita ha celebrato il suo 20° anniversario nel 2022.  Il progetto di un’alternativa strutturata alla società della crescita ha, in effetti, preso forma in Francia tra la pubblicazione del numero seminale dedicato dalla rivista Silence nel Febbraio 2002,  la conferenza organizzata da la  Ligne d’horizon all’UNESCO “Disfare le sviluppo, rifare il mondo” in Aprile dello stesso anno e quella organizzata da  “Casseurs de Pub” (1) a Lione nel Settembre 2003, esplicitamente dedicata al tema della decrescita, seguita dal lancio del giornale omonimo. Dopo un inizio relativamente trionfale, in parte dovuto alla curiosità dei media e all’ondata di caldo dell’estate 2003, il movimento ha conosciuto per molto tempo un’eclissi mediatica,  pur continuando a farsi strada in maniera sotterranea diffondendosi al di fuori della Francia, prima nei Paesi latini (Italia, Spagna, Portogallo, America Latina) dove il termine trova pieno significato,  poi in modo più ambiguo nel mondo anglosassone e infine un pò dappertutto. Aiutata dalla pandemia e dall’emergenza climatica, la decrescita è riemersa di recente ed è persino entrata nel dibattito politico francese in vista delle elezioni presidenziali del 2022.

Rivendicata per la prima volta da un candidato alle primarie ecologiste, la decrescita è ormai una proposta su cui tutti i leader politici sono costretti a confrontarsi, se non altro per respingere con orrore o disprezzo un progetto la cui portata è in gran parte sconosciuta. Lo stesso Presidente Macron vi ha fatto riferimento in diverse occasioni e vi continua ad alludere per potersene dissociare.  Prima paragonando gli “obiettori di crescita” agli Amish, poi in campagna elettorale sostenendo di essere “sia” per la crescita che per la decrescita, e infine dichiarando a Marsiglia il 16 aprile 2022: “Voglio essere chiaro con voi, non credo nella decrescita, al contrario. Dobbiamo produrre e lavorare di più (…) aerei a zero emissioni, treni a idrogeno, auto elettriche prodotte in Francia, turbine eoliche in mare prodotte in Francia, mini reattori [nucleari] e tante altre soluzioni”. (2) 

L’esempio degli Amish, citato come repellente dal Presidente Macron nel 2020, fa pensare non, ovviamente, perché se ne debba fare un’imitazione pedissequa nella lettera e nello spirito, ma per confutare le obiezioni relative al presunto “irrealismo” del progetto di decrescita, dal momento che questa comunità protestante, pur rifiutando molti aspetti della modernità, dimostra una bella resilienza e un innegabile successo economico. L’ultima, e piuttosto inaspettata, dichiarazione del Presidente Macron dell’agosto 2022 sulla fine dell’abbondanza e sulla necessaria sobrietà ha immediatamente scatenato una discussione, alimentato dalle dichiarazioni dello stesso Presidente e di chi gli è vicino, sul rapporto tra sobrietà e decrescita. È nato così un vero e proprio dibattito per chiarire le differenze tra una società sobria e una società della decrescita. ll Presidente ha tenuto a precisare: “(Sobrietà) non significa andare verso un’economia di decrescita. Non lo significa affatto. Sobrietà significa solo diventare più efficienti”. Elisabeth Borne gli ha fatto eco: “La sobrietà energetica non significa produrre meno e optare per la decrescita”, seguita dalla nuova Ministra per la Transizione Energetica, la produttivista Agnès Pannier-Ronacher, che ha dichiarato perentoriamente: “La sobrietà non è decrescita”. Al contrario, il nostro collega Dominique Bourg, ecologista svizzero vicino alla Fondazione Nicolas Hulot, intervistato su France Inter, ha dichiarato: “Non c’è opposizione tra sobrietà e decrescita: la sobrietà è l’aspetto soggettivo e la decrescita è l’aspetto oggettivo.” In altre parole, la sobrietà è la decrescita soggettiva e la decrescita è la sobrietà oggettiva. Di conseguenza, c’è un rinnovato interesse per la decrescita (3). La decrescita è quindi diventata un tema ineludibile per i media.

Fare un bilancio di questi vent’anni di decrescita significa, ovviamente, prendere atto dell’avanzamento di questa idea nella società e delle iniziative di attuazione pratica del progetto, che costituiscono i suoi punti in attivo. Ma per valutare meglio a che punto siamo, occorre anche tenere conto delle passività, che non stanno tanto nel fatto che il progetto non sia riuscito nel suo complesso, quanto piuttosto nell’esaminare le varie strategie messe in atto per neutralizzarlo o addirittura per tentare di recuperarlo. Poiché, in termini di misure concrete, le cose non sono andate molto avanti, è importante identificare con maggiore precisione gli oppositori di un programma politico di decrescita e gli ostacoli alla realizzazione di una società ecocompatibile.

La diffusione teorica e i progressi pratici.

Il contrasto tra la diffusione mediatica dell’idea (come pure quella teorica del progetto) e i progressi pratici, è impressionante e patetico. Abbiamo visto le ragioni dell’eco mediatico; l’emergere del riferimento alla decrescita nella riflessione teorica è in gran parte il risultato del lavoro svolto per diffondere questo progetto attraverso giornali, riviste, programmi televisivi e radiofonici, interventi a conferenze, forum vari e libri pubblicati sia in Francia che all’estero. Oltre alla rivista francese “La décroissance” e ai suoi compatrioti belgi e svizzeri, Kairos e Moins, esistono innumerevoli pubblicazioni, reti e siti web che riprendono in tutto o in parte le idee della decrescita. Anche se la colta rivista di studi teorici e politici sulla decrescita, Entropia, ha dovuto cessare le pubblicazioni dopo otto anni e dodici numeri, la decrescita, sotto il discutibile termine globish di “degrowth”, è diventata un argomento di studio accademico a livello internazionale, su cui vengono condotte ricerche e scritte tesi. 

Ci si potrebbe sorprendere del fatto che il movimento degli obiettori alla crescita non sia stato coinvolto più direttamente nel dibattito sui beni comuni, cosa che avrebbe potuto aumentarne ulteriormente la visibilità. Questo dibattito ha fatto scalpore nel mondo alternativo e tra alcuni economisti, dopo l’assegnazione del Premio Nobel a Elinor Ostrom nel 2009. La decrescita, che sostiene la demercificazione della natura e della società, si occupa, seppur indirettamente, ma in maniera molto forte, dei beni comuni (acqua, aria, terra, ambiente, spazi urbani, spazi verdi, paesaggi, educazione, cultura, ecc.), e si spinge oltre sostenendo la rinascita dello spirito del dono attraverso la convivialità, lo sviluppo dei beni relazionali (conoscenza, amicizia, cura, agape) e la promozione dei beni gratuiti.

La ragione principale di questa relativa assenza sta senza dubbio nel fatto che il dibattito sulla tragedia dei beni comuni, lanciato dal famoso articolo omonimo di Garrett Hardin, si è svolto in ambito economico, mentre la decrescita propone niente meno che di “uscire dall’economia” (4). Da allora, i ricercatori della decrescita hanno recuperato terreno.

Tuttavia, va detto che al di là del clamore mediatico, dei gruppi di attivisti e delle reti di ricercatori accademici, l’emergere di una grande narrazione di emancipazione attraverso l’alternativa della decrescita fatica a prendere piede. Questo non perché una società di abbondanza frugale o di prosperità senza crescita non sia attraente o ben argomentata, contrariamente a quanto dicono i suoi detrattori, ma più semplicemente perché l’appetito per un’utopia concreta non può nascere senza una disintossicazione dal sistema dominante, in altre parole senza una decolonizzazione dell’immaginario.

È un po’ come le due lame del super rasoio Gillette G2 della pubblicità: la prima lama raddrizza i peli della barba, la seconda li taglia. Nel caso della scelta di una società alternativa, ciò significa che la minaccia, o addirittura l’esperienza, di una catastrofe favorisce la consapevolezza della necessità di rompere con il passato, mentre la narrazione di un’utopia concreta offre la direzione del cambiamento, legittimata dalla sua collocazione in una filiazione storica. Oppure, al contrario: la grande narrazione della rigenerazione della società suscita un sostegno intellettuale e sentimentale, mentre lo shock del pericolo prevedibile o della catastrofe prevista innesca il passaggio all’azione.

Coloro che per interesse personale, come i negazionisti del clima, o per opportunismo, come gli ecologisti dei media, denunciano la decrescita come un’ecologia punitiva, o coloro che, come il compianto Bruno Latour, ne esplorano il lato negativo e poco attraente, esprimono in realtà il loro rifiuto di assumersi il costo simbolico o reale della rottura con il passato. Parlare della necessità di allontanarsi dal consumismo (e, ovviamente, dall’immaginario economico) è un argomento irritante. D’altra parte, Bruno Latour ha ragione a insistere sull’insidioso sconvolgimento che si è verificato nella nostra percezione comune del mondo. Il terreno che pensavamo fosse solido sotto i nostri piedi sta scivolando via e non siamo più sicuri in che tipo di mondo stiamo vivendo. Questa sensazione ampiamente condivisa è certamente un primo passo per decolonizzare l’immaginario della modernità.

In termini pratici, le cose sono certamente cambiate, anche se non abbastanza. La pandemia del virus Corona scoppiata nel 2019 ha illustrato ancora una volta, in modo ancora più massiccio e spettacolare, la fragilità del potere, per usare il titolo dell’eccellente libro di Alain Gras (5).  Ci ha dato un’idea di come potrebbe essere il crollo della società della crescita e la gestione autoritaria, persino totalitaria, del mondo dopo di esso.  “Quale governo”, si chiedeva Yves Cochet nel 2002, “oserebbe vietare i voli inferiori a 500 km, che ridurrebbero il numero di voli del 40%, fornendo al contempo una rete ferroviaria alternativa di buona qualità, o imporre una tassa di 50 euro su ogni biglietto per istituire un fondo per la lotta al cambiamento climatico?” (6). All’epoca la risposta fu che non ce n’erano, ma su questo punto le cose sono cambiate sotto la spinta degli eventi.

Con l’avvicinarsi della minaccia, ora assistiamo a imponenti cortei che chiedono misure più radicali contro il cambiamento climatico. Seguendo le orme della giovane svedese, Greta Thunberg, abbiamo visto masse di giovani (e meno giovani) mobilitarsi finalmente “per il pianeta”, anche se restano timide le misure concrete per muoversi nella giusta direzione.  C’è una discrepanza impressionante tra la relativa e inaspettata audacia delle proposte avanzate dai 150 cittadini estratti a sorte alla Convenzione dei cittadini sul clima tenutasi in Francia nel 2020 e la vacuità delle leggi che ne sono seguite. La riluttanza del mondo politico ad agire desta preoccupazione. Tra i modesti progressi positivi compiuti negli ultimi anni, possiamo citare, ad esempio, il lieve calo della produzione di rifiuti in Francia (-6,5% tra il 2007 e il 2017, secondo i dati dell’Ademe); ma nel 2018 ancora si continuavano a produrre più di 342 milioni di tonnellate di rifiuti, ovvero poco più di 5 tonnellate pro capite. Si possono mettere all’attivo del movimento ambientalista a cui partecipa la decrescita in Francia, anche numerose iniziative individuali e collettive e alcune vittorie, come l’abbandono del progetto dell’aeroporto di Notre Dame des Landes e di una miniera d’oro nella Guyana francese. Tuttavia, tutto questo impallidisce rispetto alle numerose sconfitte subite.

Infine, per onor del vero, dobbiamo segnalare i legami che la decrescita mantiene sotto il segno della chiocciola con due iniziative concrete di trasformazione del mondo: la rivoluzione neo-zapatista (da cui possiamo risalire alla nascita del “buen vivir” nell’America andina) e il movimento Slow Food. Anche se il caracol delle culture precolombiane-mesoamericane non è esattamente la nostra chiocciola (si tratta infatti di un mollusco d’acqua dolce o di un grosso crostaceo marino) e le ragioni per cui è stato scelto come simbolo sono diverse per il movimento della decrescita, per il movimento slow food e per i neozapatisti, la convergenza di questi tre movimenti, che condividono evidenti affinità  e complementarietà (in particolare attraverso la figura emblematica di Ivan Illich, che ispira la convivialità dello slow food e ha dato il nome all’Università della Terra di San Cristobal de Las Casas)  è  felice e rappresenta  un sintomo simbolico della convergenza dei nostri percorsi. Tuttavia, tutto questo, che non è poco, è ancora molto lontano da ciò che è necessario. Nel migliore dei casi, il deterioramento è stato rallentato e talvolta arrestato (come nel caso dei buchi nello strato di ozono, a quanto pare), ma la situazione nel suo complesso continua a peggiorare, e a un ritmo preoccupante, al punto che ci si potrebbe chiedere se il collasso non sia già in corso.

Limiti e  carenze nella teoria e nella pratica.

Sebbene gli eventi recenti non abbiano sminuito l’analisi fatta al momento del lancio del movimento della decrescita, c’è una strana sensazione, almeno in Francia, che nulla sia realmente cambiato e che il discorso dominante stia camminando sull’acqua, e a volte addirittura retrocedendo: basta sostituire sviluppo sostenibile con crescita verde, cambiare qualche nome, mettere Macron al posto di Chirac e Trump al posto di Bush, illustrare la ripresa investendo in tecnologia digitale anziché in autostrade, e ripulire i riferimenti bibliografici con pubblicazioni più recenti, la maggior parte delle quali confermano la diagnosi precedente. Molti buoni libri sono stati dimenticati o non sono mai usciti dal circolo degli addetti ai lavori, nonostante le analisi che contenevano rimangano di sorprendente attualità e siano state spesso ripetute senza citazioni da nuovi autori con un successo altrettanto effimero… Chi ricorda, ad esempio, l’eccellente libro di Pierre Thuillier, La grande implosione, rapporto sul crollo dell’Occidente, 1999-2002? (7)  Per chi ha vissuto gli anni ’70 e se ne ricorda ancora, ascoltare i discorsi della maggior parte dei politici e degli esperti economici è come ascoltare un disco rotto.

La diffusione, anche parziale, della decrescita nel mondo intellettuale non è priva di ambiguità.  Data la sua notorietà, la decrescita è entrata nel mondo accademico con il nome transnazionale di “degrowth” e anche nelle università anglosassoni esistono “Degrowth studies“. Essa è diventata oggetto di tesi zeppe di citazioni accademiche e di economisti ossessivi che vogliono riciclarsi nella decrescita e cercano di offrirci splendidi modelli econometrici del legame tra l’economia capitalista/produttivista in regressione e l’anti-economia conviviale in espansione.

La radicalità del progetto originario perde così gran parte del suo potenziale e del suo fascino militante, a vantaggio di ambizioni di carriera. Questo tipo di decrescita è più in linea con il movimento dell’economia alternativa, piuttosto che con quello dell’alternativa all’economia. Nel mondo anglosassone si è giunti ad opporre la decrescita, che è stata considerata troppo riformista, ad altri progetti di post-crescita.

Inoltre, laddove la decrescita ha mantenuto la sua originaria radicalità, si è scontrata con attacchi a tutto campo volti a delegittimare il progetto. La strategia più efficace per delegittimare la decrescita è senza dubbio quella di etichettarla come “ecologia punitiva“. Questo espediente mediatico, al pari dei suoi compagni sviluppo sostenibile e crescita verde, sta riscuotendo un innegabile successo a causa del peso della routine e della riluttanza a cambiare abitudini. Le lobby produttivistiche e consumistiche utilizzano tutti i mezzi possibili per impedire l’adozione di qualsiasi misura ecologica, e sfruttano situazioni dannose per l’ambiente ma redditizie, moltiplicando gli studi di parte e arrivando persino a una vera e propria falsificazione dei dati. Al di là della battaglia nel campo della comunicazione, la battaglia si sta svolgendo di fatto con grande violenza. C’è inoltre la repressione da parte dello Stato di un “eco-terrorismo”, inventato solo per giustificarla, ma le azioni criminali (raramente condannate) sono tantissime nei confronti degli attivisti ambientali e di coloro che lanciano allarmi, e non solo nei Paesi del Sud. In Francia, queste pratiche repressive che avvengono nel settore agricolo in Bretagna, sono state magistralmente portate alla luce dalle inchieste del giornalista di Le Monde Nicolas Legendre (8).

Se un ripensamento degli stili di vita e delle abitudini che comporti la riduzione di alcuni tipi di consumo, e di conseguenza una trasformazione del sistema produttivo, è considerato insopportabile (“L’American way of life non è negoziabile”, come ha detto Bush senior), a prescindere dai benefici in termini di benessere e gioia di vivere che questo cambiamento ben progettato può apportare a lungo termine, allora sì, la decrescita è un’ecologia punitiva.

Ma allora dobbiamo ammettere che non è possibile una vera e propria transizione ecologica indolore e che tutta la politica ambientale si limita alla patina ecologica del greenwashing. Le politiche ecologiche minimaliste della maggior parte dei governi, che fanno ricadere sulle classi lavoratrici l’onere delle misure necessarie a limitare i disastri, ad esempio attraverso alcune tasse, sono di fatto punitive, poiché non mettono in discussione la logica dominante, e non forniscono alcuna compensazione se non quella di prolungare la sopravvivenza della società della crescita con le sue disuguaglianze e ingiustizie. Far sognare “Billancourt”, come propone il leader socialista belga Paul Magnette in un recente libro (9), va benissimo ed è persino necessario, ed è quello che sta cercando di fare François Ruffin, con grande coraggio ed energia, nel suo lavoro e con il giornale Fakir, ma non possiamo ignorare il fatto che la cura di disintossicazione  dal consumismo sia molto difficile.

La pianificazione ecologica del governo di Elisabeth Borne, ambiziosa a parole ma molto meno nei progetti concreti, si scontra comunque con questa difficoltà. Per quanto timide possano essere le misure di trasformazione della produzione e del consumo, c’è un prezzo da pagare: alcune attività diminuiscono, alcune imprese scompaiono, i lavoratori vengono licenziati, alcuni prodotti diventano più costosi, e così via. Il win-win ha i suoi limiti. Rifiutando di affrontare le gigantesche disuguaglianze – anche se sappiamo che gran parte della distruzione ecologica è causata dallo stile di vita dei ricchi (il 10% più ricco è responsabile del 40% delle emissioni di gas serra, secondo le stime più basse del 6° rapporto del CIEC) – e rifiutando persino una tassa sui super-profitti votata alla Camera, con il pretesto di non “fratturare la società”, cosa che non ha esitato a fare con l’impopolare riforma delle pensioni, il governo sta distruggendo sempre un po’ di più sia la società che il pianeta. Questo rifiuto della lotta contro le disuguaglianze e l’implacabile rifiuto della condivisione è certamente uno dei segni più chiari del rifiuto di un’ecologia non superficiale da parte del governo.

Allo stesso tempo, concetti che facevano parte della logica interna della decrescita vengono banalizzati e/o recuperati, contribuendo così a neutralizzare la natura sovversiva del progetto. È il caso della bioeconomia, della resilienza, dell’economia circolare, della transizione e infine del collasso, per non parlare ovviamente della sobrietà. Per Nicholas Georgescu-Roegen, l’impossibilità di una crescita infinita in un mondo finito, portava  alla necessità di una bioeconomia, cioè di un modo di pensare l’economia all’interno della biosfera (10). Quel programma è stato in seguito usato impropriamente per riferirsi alla manipolazione degli organismi viventi nel tentativo di risolvere la crisi ecologica con una corsa tecnicista senza mettere in discussione la crescita. Questa seconda bioeconomia è diventata addirittura un elemento chiave dell’ideologia della crescita verde, un nuovo ossimoro che tende a sostituire il termine sbiadito di “sviluppo sostenibile” e che dà luogo alle stesse acrobazie mistificatorie sul suo contenuto (11).

Negli ultimi anni, allo stesso modo, il concetto di resilienza, al centro del progetto delle Transition Towns, è stato recuperato e sfruttato dagli “amministratori del disastro”, ovvero le lobby che rappresentano gli interessi economici e i governi al loro servizio, per evitare di rompere con il produttivismo e dare l’impressione che la crisi ecologica si risolva con l’adattamento delle persone, se necessario facendole sentire in colpa (12).

Questo tipo di strategia è stata utilizzata anche con l’economia circolare, che è diventata la base del Green Deal, la dottrina della Commissione europea per affrontare la crisi ecologica (13).  In quanto modo ingegnoso di contrastare l’obsolescenza programmata e lo spreco di risorse, l’economia circolare aveva un posto naturale nell’attuazione di una politica di decrescita.

Sfruttando l’onda delle critiche alla valutazione della ricchezza in base al PIL, l’indice feticcio della crescita che ignora totalmente l’ecologia, nel febbraio 2008 il Presidente Sarkozy ha lanciato una grande operazione di comunicazione per coronare il grande giro di fumo del Forum ambientale di Grenelle. Ignorando gli esperti francesi altamente competenti che avevano già lavorato sull’argomento, ha chiamato due economisti mondiali premiati con il Nobel, Joseph Stiglitz e Amartya Sen, per istituire una commissione ad hoc e consegnare un rapporto per una diversa misurazione delle prestazioni. La commissione, composta da un areopago di luminari dell’economia transnazionale, ha lavorato in inglese e ha presentato il suo rapporto nel settembre 2009. Ovviamente, questo dotto documento, pubblicato con grande clamore mediatico, non aggiunge nulla di nuovo al lavoro precedente di cui è un’onesta sintesi e, una volta terminato lo spettacolo, nulla è cambiato in modo sostanziale. Potrebbe essere altrimenti?  Come si può credere che proporre un cambio di indicatore possa risolvere i problemi?

Infine, una forma più perversa di neutralizzazione del potenziale sovversivo della decrescita è stata ottenuta radicalizzandola, in qualche modo. La prospettiva del collasso è stata ampiamente utilizzata dal movimento della decrescita per evocare il destino della società della crescita e convincere le persone della necessità di rompere con la logica della crescita (la prima lama del rasoio) e di costruire un’alternativa sobria, sostenibile e desiderabile (la seconda lama). Date le numerose e varie minacce (cambiamento climatico, sesta estinzione delle specie, pandemie, crisi sociali, ecc.), l’evocazione di catastrofi mirava soprattutto a evitare la fine dell’umanità e a sfuggire alla miseria del presente. Il potenziale deliberatamente provocatorio dello slogan della decrescita è stato in parte oscurato in alcuni ambienti dalla moda stessa del grido al collasso.

In questo modo, i media sono passati dalla negazione della crisi ecologica alla promozione di visioni apocalittiche, ignorando la necessità di un cambiamento di sistema, come sostenuto dalla decrescita. La decrescita era utopica, inutilmente allarmista e ridicola, e non era all’ordine del giorno quando è apparsa nel 2002. A distanza di vent’anni è altrettanto utopica, ma è troppo tardi per pensarci ora che è stata superata dall’attuale collasso. Quindi non è ancora all’ordine del giorno. Prima la possibilità di una catastrofe era un’illusione ed era meglio non fare nulla. Ora non c’è altro da fare che adattarsi (resilienza) o aspettare un miracolo tecnologico (geoingegneria o transumanesimo).  Si dice che il famoso libro di Jared Diamond, Collapse, fosse il libro da comodino del Presidente Sarkozy, e gli stessi governi non hanno evitato di fare lo stesso gioco. 

Nella pratica, i limiti del successo del progetto della decrescita sono ancora più evidenti. Nel 2016, l’impronta media dell’umanità ha raggiunto i 2,75 ettari (invece degli auspicabili 1,8 ettari) e l’overshoot day – il giorno dell’anno in cui si esauriscono le risorse rinnovabili – ha continuato a retrocedere ogni anno fino al 2018, quando è caduto il 25 luglio. Dopo un leggero calo dovuto alla pandemia di Covid 19, sembra essersi temporaneamente stabilizzato intorno a questa data. D’altra parte, grandi opere inutili e dannose sono ancora all’ordine del giorno. Dopo l’apertura del tunnel del Lötschberg (34 km) nel 2007 e del Gottardo (57 km) nel 2016, sono in programma il tunnel del Brennero (64 km entro il 2032) e il tunnel Lione-Torino (57 km entro il 2030). Si tratta di alcuni dei progetti europei più titanici del XXI secolo. Senza contare gli innumerevoli progetti meno titanici, come i grandi bacini artificiali progettati per perpetuare un’agricoltura basata sulla produzione, che sono una contraddizione in termini quando si tratta di gestire la siccità, e i numerosi progetti autostradali che violano gli impegni presi dai governi per fermare la cementificazione del territorio. 

Mentre i leader politici ed economici moltiplicano le dichiarazioni di buone intenzioni per ridurre le emissioni di gas serra, vogliono mantenere o addirittura aumentare le cause: turismo di massa, trasporto aereo, agricoltura di tipo produttivista. In Francia, nonostante un programma da 800 milioni di euro per ridurre l’uso di pesticidi del 50% tra il 2009 e il 2021, l’uso di pesticidi è aumentato del 15%! Non possiamo che ribadire il famoso detto di Bossuet: “Dio ride degli uomini che deplorano gli effetti di ciò che essi amano come cause”… Sebbene un tribunale americano abbia infine ordinato alla Monsanto di pagare un sostanzioso risarcimento a un utente californiano vittima del Round-up, recenti sondaggi d’opinione ci dicono che la resistenza agli OGM sta scemando nell’opinione pubblica e un tribunale francese ha ordinato alla Confédération Paysanne di pagare un sostanzioso risarcimento alla Monsanto.

Fino ad oggi (2023), l’Europa è riuscita a proteggerci al meglio dagli OGM di prima generazione, ma sembra che non sarà così per quelli nuovi e più sottili. L’attività di lobby della Bayer, che nel frattempo ha assorbito la Monsanto, ripete la stessa argomentazione sui presunti effetti ecologici benefici dei nuovi OGM, nonostante le precedenti promesse sui vecchi si siano rivelate false. Ciononostante, la Commissione europea si sta preparando ad autorizzare le nuove chimere nel 2023 e il presidente Macron sembra  voler dare loro la sua benedizione nel suo piano Francia 2030 (14).

Per quanto riguarda le disuguaglianze, i recenti rapporti dell’ONG Oxfam sono ancora più sconvolgenti, e abbiamo visto che i ricchi inquinano infinitamente di più dei poveri. Nel 2010, 368 persone avevano una ricchezza equivalente al reddito di metà dell’umanità, nel 2011, 166, nel 2012, 159, nel 2013, 92 nel 2014, 80, nel 2016, 62, nel 2017, 8, e infine 5 nel 2018 (15). Il secondo rapporto del World Inequality Lab sulla disuguaglianza globale, pubblicato nel dicembre 2021 e che prende in considerazione la disuguaglianza di ricchezza, è ancora più sconvolgente: il 10% più ricco si accaparra il 35% del reddito ma possiede tra il 60% e l’80% della ricchezza. Negli ultimi 25 anni, la quota di ricchezza mondiale detenuta dai miliardari è triplicata. L’1% più ricco ha messo le mani sul 38% dell’aumento della ricchezza, mentre il 50% più povero ha ottenuto solo il 2% (16). L’ostinato rifiuto del governo francese di tassare i super-profitti, di cui il Ministro dell’Economia arriva a negare l’esistenza, è emblematico della “eco-tartuferia” (eco-ipocrisia, ndt) di questa politica dei “piccoli gesti per salvare il pianeta” proposti insieme alla sobrietà energetica.

Le minacce non sono affatto finite. Gli effetti del cambiamento climatico si fanno sentire sempre di più, esacerbando i conflitti, le contraddizioni e le frustrazioni delle società cosiddette “in via di sviluppo”. Il flusso di migranti che cercano di raggiungere i Paesi ricchi a costo della vita è in aumento, mentre le frontiere vengono chiuse sempre più strettamente, moltiplicando le tragedie umane. L’uso di questa “minaccia migratoria” da parte dei demagoghi populisti sta alimentando l’ascesa di partiti politici di estrema destra che giocano sulle paure di una mitica “Grande Sostituzione”, sui timori esagerati del terrorismo islamico e sulla perdita dell’identità nazionale.

In definitiva, anche se il bilancio non è disonorevole, la decrescita rimane al tempo stesso una sfida e una scommessa.  E’ una sfida alle convinzioni che sono alla base della modernità, perché lo slogan della decrescita è una provocazione insopportabile, addirittura una bestemmia per gli adoratori del progresso e dello sviluppo, e questo permette alle lobby che difendono la continuazione del disastro di neutralizzare la sfida. Ma è anche una scommessa, quasi in senso pascaliano, perché, per quanto necessaria, nulla è meno certo della realizzazione del progetto di una società autonoma della frugalità conviviale, ma allo stesso tempo non abbiamo nulla da perdere osando rischiare, e tutto da guadagnare. La sfida, più che mai, vale la pena di essere raccolta e la scommessa di essere tentata. 

(1) “Rompitori di pubblicità”
(2) Per lo stesso periodo, vanno ricordate le sue dichiarazioni del 7 aprile: “Quello che stiamo facendo dal 2017 è mettere insieme la socialdemocrazia e l’ecologia del progresso che rifiuta la decrescita…” e del 19 aprile: “Credo nell’ecologia della costruzione, non credo nell’ecologia della decrescita”. Sulla moda della sobrietà, che deve essere contrapposta alla decrescita, le dichiarazioni del governo sono innumerevoli.
(3) La pubblicazione e la ripubblicazione di “Que sais-je?” sulla decrescita e una nuova edizione rivista, ampliata e aggiornata del mio libro “ La scommessa della decrescita” sono un segnale eloquente.
(4) Garett Hardin, The tragedy of the commons, Science 1968; si veda anche Susan Buck Cox, No tragedy on the commons, Environmental Ethics 7, 1985. Per una panoramica sull’argomento, si veda Jean-Benoît Zimmerman, Les communs. Des jardins partagés à Wikipedia, Libre et solidaire, 2020.
(5) Alain Gras, Fragilité de la puissance, Fayard, 2003.
(6) Yves Cochet, Pétroleapocalypse, Fayard, Paris, 2005, p.62.
(7) Pierre Thuillier, La grande implosion, rapport sur l’effondrement de l’Occident, l999-2002, Fayard, l995 (trad.it. Asterios, 1997).
(8) Nicolas Legendre, si veda la serie di articoli apparsi su Le Monde dal 4 al 9 aprile 2023, L’univers impitoyable de l’agriculture bretonne e il suo  libro, Silence dans les champs, Arthaud, 2023.
(9) Paul Magnette, La vie large. Manifeste écosocialiste, La découverte, Paris 2022.
(10) Sappiamo che “décroissance” deriva dal fatto che il termine è stato usato in francese per intitolare una raccolta di suoi saggi
(11) Vedi Hélène Tordjman, La croissance verte contre la nature. Critique de l’écologie marchande, La découverte, 2021
(12) Vedi Thierry Ribault, Contre la résilience. A Fukushima et ailleurs, ed. L’Echappée, 2021.
(13) Vedi Aurélien Berlan, Guillaume Carbou et laure Teulière (dir), Greenwashing. Manuel pour dépolluer le débat public. Seuil 2022
(14) Vedi, Stéphane Foucart, La nouvelle bataille des OGM, Le monde des 28/29 novembre 2021
(15) Gloria Germani, « Verità della decrescita. Via dalla scienza totalitaria per salvare il mondo ». Castelvecchi, 2021, p. 249.
(16) Vedi Anne-Sophie Lechevallier, « Rapport sur les inégalités mondiales. Les super-riches toujours plus riches ». Libération, 9 décembre 2021