Condividiamo l’intervista a Serge Latouche di Maddalena Oliva, pubblicata sul Fatto Quotidiano il 25 settembre.

 

È un’apertura, la sua, un invito a trovare un altro mondo possibile qui e ora, di fronte a una crisi che rivela, ancora una volta, la fragilità della nostra società. Serge Latouche ha fatto della resistenza al consumismo un’etica e un movimento, quello della decrescita, nato oltre 15 anni fa. Lo incontriamo via Zoom, immerso nel suo studio a Parigi, tra citazioni e libri. L’ultimo che ha scritto, appena pubblicato in Italia per Bollati Boringhieri, è L’abbondanza frugale come arte di vivere.

Dalla recessione alla crisi energetica: è tempo di razionamenti. La decrescita è, senza averla scelta, realtà?

Niente affatto, è il contrario! La decrescita è cambiamento radicale del sistema, oggi viviamo in recessione e con risorse relativamente scarse a causa della guerra in Ucraina. In Francia si parla di tagliare i consumi di energia del 10%, ma per una società sostenibile l’impronta ecologica andrebbe abbassata del 75%! Questa non è decrescita, è una truffa. Vuole una prova? Gli ecologisti sanno che per ridurre l’impronta ecologica bisogna diminuire le disuguaglianze, eppure nemmeno ora che la forbice si è allargata, una misura limitata come la tassa sugli extraprofitti riesce a essere approvata.

Nella sua prospettiva, la decrescita è associata alla felicità. Sembriamo tutt’altro che felici, però.

Siamo tossicodipendenti da crescita. Il nostro è un sistema basato sulla droga. Colonizzano il nostro immaginario, ci inculcano che più consumi più sei felice. Sembra così che la frugalità sia incompatibile con la gioia. Ma la gente sa che non è vero. C’è un passaggio bellissimo degli Scritti corsari che dice tutto: Pasolini, cito Piero Bevilacqua, è “precursore della decrescita”. “Una volta – scrive Pasolini – il fornarino o il cassierino come lo chiamano a Roma era eternamente allegro (…), giungeva alla casa del ricco con un sorriso naturale e anarchico (…). Non è la felicità che conta, non è per la felicità che si fa la rivoluzione, ma la condizione contadina e sottoproletaria sapeva esprimere una certa felicità reale. Oggi questa felicità, con lo sviluppo, è andata perduta”. La felicità è il nostro stato primordiale. Con questo sistema produttivista e consumista abbiamo distrutto il senso della vita e minato la convivialità. Per la felicità sono più importanti le relazioni sociali che il consumo.

L’impulso al consumo non come necessità, ma come “colonizzazione culturale”?

Sì, è il meccanismo della pubblicità, della propaganda. Farci credere che non siamo soddisfatti di ciò che abbiamo per farci desiderare ciò che non abbiamo. Ma il sistema ha tradito le sue promesse. Più sei ricco, più guadagni, più consumi, più sei povero. L’economia della crescita moltiplica i disgraziati. Siamo in un circolo vizioso, romperlo è la difficile sfida della decrescita.

I suoi detrattori direbbero: “Parla facile lei…”.

In questa critica c’è qualcosa di vero, non a caso le classi più popolari hanno abbandonato i partiti di sinistra. È successo in Francia e in Italia. Votano per i populisti, contro l’immigrazione: è la guerra tra poveri. La situazione è tragica. Prima i risultati elettorali in Svezia e ora l’Italia: il ritorno di Berlusconi è per noi incredibile!

Un partito di massa con una prospettiva di cambiamento radicale manca.

Il movimento per la decrescita non entrerà in politica. La “rigenerazione democratica”, per citare il mio amico Marco Deriu, deve essere un orizzonte di senso per creare un futuro sostenibile.

Per Carlin Petrini, Slow Food deve farsi politica. Che ne pensa?

Dipende da cosa Petrini intende con “politica”. Fondare un partito sarebbe un errore; dire che il suo movimento è contrario al progetto della destra italiana mi troverebbe invece d’accordo. Slow Food è già un movimento politico, lo è dalla fondazione: Terra Madre e il motto “buono, sano, giusto” sono un inno alla decrescita, un progetto rivoluzionario. Oggi l’alimentazione è tutt’altro che buona, sana e giusta e per recuperarla è necessario uscire dall’agro-business, dagli allevamenti intensivi… Questa è politica, anche se la politica politicante non raccoglie queste istanze. All’inizio lo hanno fatto i 5Stelle, poi si sono persi, purtroppo. Lo dissi a Beppe Grillo, con cui ci sentivamo spesso, che sarebbe stato un errore entrare in politica: era giusto che il Movimento continuasse a far pressione sui partiti, per dedicarsi a un’alternativa radicale.

A proposito di partiti e programmi, secondo lei non si può sostituire una buona economia a una cattiva, magari tingendola di verde, di equo e di sociale: serve uscire dall’economia.

In Francia alcuni partiti di opposizione fanno un ottimo lavoro, ma si fermano alla denuncia del potere asservito alle lobby della finanza.

Per non limitarsi alla denuncia, come si diventa un “obiettore di crescita”?

Bisogna fare di tutto, a livello teorico e pratico, per uscire da questa società fagocitata dall’economia di crescita. Nel mio piccolo, cerco di decolonizzare l’immaginario. E anche voi col vostro giornale lo fate. Avere un’etica della decrescita non porta a molto, ma serve a vivere bene l’austerità forzata. Non ho la tv, non uso il cellulare, non ho la macchina, vado in bici da 50 anni: la scarsità di energia o il caro-prezzi non mi toccano molto. È più una forma di educazione all’equilibrio e alla libertà, per riprenderci il futuro: non basta a cambiare il sistema. Nemmeno se fossimo milioni, basterebbe. Il “Palazzo” è troppo forte.

Lei dice che è necessario ribaltare i rapporti e i mezzi di produzione, di marxiana memoria. Come?

Si vede già. Il sistema è in crisi e lo sarà sempre di più: ci hanno venduto il falso mito della “globalizzazione felice” e ora siamo vicini al collasso, accelerato da guerra e pandemia. Possono aprirsi delle finestre di opportunità: tutte le società trovano una strada per salvarsi. Ma per evitare che nascano nuove forme di ecofascismo, è fondamentale portare avanti un’alternativa di società: ecosostenibile, giusta e democratica.

Si sente, per le sue tesi, vicino a Papa Francesco?

Dovrebbe chiedere al Papa se è lui a sentirsi vicino alla decrescita! (ride) L’enciclica Laudato si’ parla di decrescita. Mi era stata annunciata, proprio dall’amico Petrini che, non svelo un segreto, sente spesso il Pontefice.

La New Economics Foundation, che lei cita, costruisce un indice di felicità che ribalta l’ordine classico del Pil e l’indice di sviluppo. L’ultima classifica?

In testa, Costa Rica, Messico e Colombia. Un podio un po’ discutibile se si pensa alla violenza in questi Paesi. All’ultimo posto, peggio di noi, gli Stati Uniti.

La pandemia ci ha sfidato a rivedere le fondamenta del nostro sistema…

Durante il lockdown si sono rivisti i delfini nel Canal Grande, son tornati gli uccellini sugli alberi di fronte a casa, l’aria era più pulita… Ma è stata una parentesi. Il Covid ha permesso ai governi un controllo più forte della società, anche con forme di videosorveglianza come in Cina: un nuovo modello di tecno-eco-totalitarismo. Ci stiamo orientando sempre più verso società in cui la gestione della scarsità, della fine dell’abbondanza della natura, è demandata a tecnocrazie che hanno, come unico obiettivo, il mantenimento del livello di vita delle classi dirigenti. Siamo già qui. Lontani dalla democrazia.