La crescita incontrollata della produzione, sia essa di oggetti o di segni, ha strettamente a che fare con l’insopprimibile desiderio di evitare la morte naturale. In un mondo di schermi illuminati, di immagini cangianti, di impulsi elettrici, i limiti imposti dalla biologia scompaiono, e tra questi la morte innanzitutto. La riappropriazione della dimensione simbolica della morte potrebbe salvarci dall’attuale pericolo esiziale costituito dall’eccesso di sicurezza e dalla fobia dello straniero, facendoci uscire dall’escalation delle catastrofi secondo Baudrillard: naturali, artificiali, programmate. 


Pare che la specie abbia raggiunto un punto specifico misterioso,
a partire dal quale sia impossibile tornare indietro, decelerare, rallentare.

J. Baudrillard[1]

 

Per Hannah Arendt, «immortalità significa permanenza nel tempo, vita senza morte su questa terra e in questo mondo come era concessa, secondo la concezione greca, alla natura e agli dei olimpici»[2]. A questo concetto sarebbe succeduto quello, platonico prima e cristiano poi, di eternità: ineffabile e inesprimibile quest’ultimo, in qualche modo raggiungibile solo tramite la contemplazione.

Perduta la fede nella vita eterna, a distanza siderale dalla familiarità con «sora nostra morte corporale»[3] di Francesco d’Assisi, l’uomo moderno sembra cercare nuovamente una qualche forma di immortalità, ben differente però dall’unica speranza concessa ai mortali secondo i greci presocratici, di guadagnarsi attraverso un comportamento nobile ed eroico una fama imperitura.
Ancor prima dell’atteggiamento dei nostri giorni, su cui mi soffermerò, faccio riferimento alla modernità come origine di un comportamento sociale che è giunto ora alla sua assurda esasperazione, cioè al paradigma che a partire dal Rinascimento sposta l’orizzonte dell’uomo dal cielo alla terra e gradualmente cessa di considerare l’esistenza terrena la breve premessa a un destino di eternità, paradisiaco o infernale che sia. In ciò seguo il percorso tracciato da Jean Baudrillard, in particolare nella sua opera fondamentale Lo scambio simbolico e la morte [4]. Il filosofo francese scomparso da pochi anni, a mio parere uno dei migliori interpreti del nostro tempo, indica nei simulacri una precisa strategia di allontanamento dalla natura, e pertanto dalla morte che ne è elemento costitutivo, di sua manipolazione e addomesticamento. A detta strategia appartiene l’invenzione del naturale, in apparenza rispettosa imitazione della natura, in realtà sua negazione sostanziale.
I simulacri originano proprio nella teatralità rinascimentale e barocca: «Il teatro è una forma che si impadronisce di tutta la vita sociale e di tutta l’architettura a partire dal Rinascimento. È là, nei virtuosismi dello stucco e dell’arte barocca, che si decifra la metafisica della contraffazione, e le nuove ambizioni dell’uomo rinascimentale sono quelle d’una demiurgia mondana, d’una transustanziazione di tutta la natura in una sostanza unica, teatrale come la socialità unificata sotto il segno dei valori borghesi, al di là delle differenze di sangue, di rango o di casta»[5]. La trasformazione è totale e comprenderla ci aiuta a decifrare gli eccessi della civiltà occidentale dei giorni presenti: «È la vita aperta a delle combinazioni inaudite, a tutti i giochi, a tutte le contraffazioni – perché la mira prometeica della borghesia s’è riversata nell’imitazione della natura, prima di lanciarsi nella produzione»[6].
Da allora in poi la strada è stata lunga, ma in fondo unidirezionale. Ecco come il pensatore d’Oltralpe interpreta l’evoluzione storica dalla modernità alla postmodernità: «La contraffazione è lo schema dominante dell’epoca “classica”, dal Rinascimento alla rivoluzione industriale. La produzione è lo schema dominante dell’ era industriale. La simulazione è lo schema della fase attuale retta dal codice. Il simulacro di primo ordine specula sulla legge naturale del valore, quello di secondo ordine sulla legge mercantile del valore, quello di terzo ordine sulla legge strutturale del valore»[7].
Per capire cosa Baudrillard intenda per dominio del codice, basti pensare al ruolo che ha assunto negli ultimi decenni il DNA, quasi nuova configurazione di anima immortale che dà forma e vita al corpo sopravvivendogli, oggetto di ingiustificata venerazione[8], nonché al software che presiede al funzionamento di tutti gli apparati elettronici, ormai ritenuti inseparabili dalla nostra quotidianità.
Purtroppo l’era del codice si è innestata su quella della produzione, ma non l’ha soppiantata, sicché è sotto gli occhi di tutti il perdurare di un’ipertrofia produttiva, senza ragione logica, e la spasmodica preoccupazione di trovare sempre nuovi mercati, ove smaltire cataste di merci inutili che finiscono presto in maleodoranti e malsane discariche oppure in altrettanto nocivi inceneritori, comunque li si voglia rinominare per non spaventare il pubblico.
La crescita incontrollata della produzione, sia essa di oggetti o di segni, ha strettamente a che fare con l’insopprimibile desiderio di evitare la morte naturale. Questo è il punto centrale del mio ragionamento. La crescita è la caratteristica tipica dell’adolescenza, quindi quanto di più lontano dall’idea di senescenza e di fine della vita. Non è un caso se sovente nei resoconti del PIL sentiamo dire che quest’anno siamo cresciuti di un tot (in realtà per quanto riguarda l’Italia da tempo non possiamo più udirlo).
Si tratta della causa e dell’effetto insieme, in uno schema circolare, della sempre più stretta simbiosi dell’uomo e delle macchine, benché di norma una simbiosi debba giovare a entrambe le parti, mentre qui ci troviamo di fronte alla progressiva meccanizzazione della vita. Non solo in termini di uso e abuso montante di apparati elettronici d’ogni sorta, non solo in termini di protesi più o meno inserite nei nostri corpi che ci illudono sulle crescenti possibilità dei corpi stessi, ma altresì sotto l’aspetto di una meccanizzazione, per non dire industrializzazione, dei nostri processi e ritmi vitali, persino dei nostri desideri, sia sul lavoro, sia al di fuori, giacché la distinzione sfuma vieppiù. La già citata Arendt scrive con molta efficacia dell’assorbimento dell’operaio in un’incantata ripetitività di gesti meccanici, progettati non in funzione sua, bensì della macchina. Ed ella medesima ci rammenta che se da un lato dobbiamo immensa gratitudine a Karl Marx per averci convinto del potenziale alienante di questo sistema, dall’altro è divenuto ormai assolutamente palese che non, o non solo, nella proprietà dei mezzi di produzione risiede la ragione dell’alienazione, ma nella loro natura e nelle loro finalità: non potrebbe esservi testimonianza più persuasiva della defunta Unione sovietica e dell’emergente Repubblica popolare cinese.
Le macchine sono (teoricamente) riparabili all’infinito e all’essere umano contemporaneo sembra di poter scacciare l’idea del deperimento naturale e infine della morte tramite l’identificazione con esse e la loro idolatria. Ogni azione, anche di pensiero, determina però inevitabilmente una reazione, un contraccolpo: in questo caso la vergogna prometeica, ossia un senso di inferiorità colmo di vergogna di fronte alla perfezione tecnologica e alla potenza dei nuovi apparecchi, di cui ci parla Günther Anders[9].
Crescita economica e perfezionamento tecnologico avanzano di pari passo, l’una spinta dall’altra e determinante l’altra nel contempo, anche se Emanuele Severino ritiene che in fin dei conti sia la tecnica a servirsi del capitalismo, non il viceversa, e che essa sia destinata a sopravvivergli[10].
La peculiarità della crescita che la rende un surrogato, evidentemente a oggi molto efficace, della speranza nel paradiso è che non offre mai concretamente un punto d’approdo, verificabile e necessariamente deludente rispetto alle aspettative metafisiche, lo rimanda all’infinito. Una volta un giornalista chiese a un membro della dinastia dei Rockefeller, se avesse immaginato per il suo patrimonio una cifra che lo potesse rendere definitivamente soddisfatto e questi rispose che gli sarebbe sempre mancato un dollaro.
Ogni paradiso però, compreso codesto così goffamente delineato e trasferito sulla terra, per esistere ha bisogno di un inferno che funga da contraltare. Ecco allora all’uopo la creazione della povertà estrema nei paesi cosiddetti sottosviluppati: come afferma Zygmunt Bauman, basterebbe poco per permettere a questi popoli di uscire dalle forme più estreme di miseria, sicché la loro situazione non è (solo) l’effetto collaterale dell’arricchimento occidentale, ma un fatto voluto e determinato per far apparire il nostro mondo un Eden agognato[11] (non sono forse in tanti pronti a morire pur di sbarcare nei nostri lidi!?).
Se è vero ciò che sostiene Ėmile Durkheim, che ogni società necessiti di un’idea religiosa che ne sia il collante[12], è fuor di dubbio che la nostra convivenza ormai non poggi tanto su una fumosa e non meglio definibile tradizione giudeo-cristiana, quanto sulla fede in una crescita senza limiti e senza fine. Ha pertanto completamente ragione Serge Latouche a proclamare la necessità di una decolonizzazione dell’immaginario[13], che anzi forse assume le dimensioni pure maggiori della nietzscheana trasvalutazione di tutti i valori, sicché ogni pur lodevole tentativo di affermare una prospettiva di decrescita semplicemente in ragione del buon senso e attraverso qualche timido cambiamento di abitudini è votato al naufragio.
Nell’epoca della religione della crescita economica e del progresso tecnologico i sacerdoti hanno smesso l’abito talare e hanno vestito il camice bianco. Difatti è di un’evidenza assoluta che a officiare oggi i sacri riti che dovrebbero addolcire il pensiero e l’esperienza della morte siano i medici. Apostoli disciplinati della credenza che la medicina risolverà prima o poi il problema della malattia, hanno trasformato, ancora secondo le acute osservazioni di Baudrillard, la morte in una grave malattia temporaneamente incurabile, obliando il concetto elementare che è la morte insieme alla nascita a dare forma e limite alla vita. Senza morte non c’è vita, come senza freddo non c’è caldo.
I mastodontici apparati sanitari, nazionali e privati, assorbono una quantità indescrivibile di risorse e di energie allo scopo di alimentare l’inganno del continuo aumento di durata della vita (ma in quali condizioni!?), introducendo un numero sempre più elevato di veleni e creando sempre nuove malattie e malesseri man mano che fingono di eliminarne taluno[14]. Superfluo sottolineare che l’industria farmaceutica è tra le più floride e insieme a quella militare (sempre di morte parliamo!) pilastro dell’aumento del prodotto interno lordo.
Nell’era della biopolitica [15], la casta degli specialisti della salute ha assommato potere spirituale e potere temporale. Onde non affrontare la morte si è sterilizzata la vita in preda a un’ossessione immunitaria[16].
Nella visione di Baudrillard la realtà virtuale, ovvero l’iperrealtà, assolve precisamente questa funzione: di uccidere la realtà come in un delitto perfetto[17], eliminandone ogni traccia, nell’identica maniera con cui la pornografia ha soffocato il desiderio sessuale. In un mondo di schermi illuminati, di immagini cangianti, di impulsi elettrici, i limiti imposti dalla biologia scompaiono, e tra questi la morte innanzitutto. Svanisce la natura autentica, di cui pure siamo inevitabilmente parte, e con essa le piccole grandi gioie, come il sapore di un frutto appena colto che nel meraviglioso film iraniano Il sapore della ciliegia viene proposto come rimedio al desiderio di suicidio.
Questa mortifera cultura che ha cancellato la simbolizzazione della morte, tradizionale metodo per una sua accettazione abbastanza rasserenante, si rivolge alla natura con aperta ostilità. Come la povertà nel mondo, anche i devastanti danni ambientali non sono una mera conseguenza indiretta e indesiderata delle abitudini di vita occidentali, sono il risultato diretto di un malcelato odio verso le leggi naturali, che ovviamente includono anche il termine dell’esistenza individuale.
Si preferisce circondarsi di cose, da gettare prontamente appena compaiano segni di usura che rimandino all’idea dell’inevitabile deterioramento del nostro corpo: ma, come osserva ancora Baudrillard, se al nostro contatto i manufatti non si scalfiscono, allora vuol dire che siamo già morti!
Per lo stesso motivo attraggono tanto i grattacieli fatti di acciaio e cristallo, lucidi e riflettenti, all’apparenza indistruttibili e persino inscalfibili. L’attentato alle Torri gemelle di New York, chiunque sia l’ideatore e l’esecutore (i dubbi sono del tutto legittimi), ha colpito un emblema di grande forza, non semplicemente un edificio.
Il fascino dell’inorganico[18] ha condotto al parossismo il feticismo delle merci. Il figlio della società dei consumi nel suo delirio di onnipotenza, tipicamente narcisista [19], si balocca nel miraggio di essere un creatore, un infallibile e immortale demiurgo: mette al mondo una miriade di oggetti pensanti e agenti (computer, robot, etc.) per investirsi di tale ruolo. Spera di poter trasferire un giorno le sue facoltà mentali su un disco magnetico e di poter congelare il proprio organismo per eludere la propria fine.
Contemporaneamente inventa e costruisce mezzi di trasporto ognora più veloci, più potenti, più sofisticati, in una folle corsa contro il tempo che in verità è un’inutile corsa per fuggire alla sorte di ogni mortale[20]. Da automobilista si chiude nella sua vettura o da motociclista in tute ipertecnologiche, come una mummia nel suo sarcofago (un’altra acuta idea di Baudrillard): per non morire si comporta come fosse già deceduto.
Per parte sua la moda, che informa di sé e non solo etimologicamente il moderno, ormai non investe solo gli abiti, ma qualunque abitudine e modo di fare: essa si incarica con i suoi cambiamenti ininterrotti di proporre un gioco infinito che distragga dalle riflessioni profonde, di celare il percorso esistenziale dietro l’illusione di una lunga serie di rinascite e ricominciamenti, di indurre una ciclicità totalmente artificiosa che soppianta il naturale ciclo delle nascite e delle morti. Le nuove vestali di codesto culto inscenano periodicamente una spettacolare danza macabra, vale a dire la sfilata di moda, in cui esibiscono i loro corpi anoressici, i loro volti esangui, le loro movenze reificate, la loro fredda asessualità.
Qui come altrove la morte fa la sua comparsa nella nostra società solo a patto d’essere metamorfizzata, feticizzata, sterilizzata oppure spettacolarizzata. A nessuno sfugge la ridondante presenza di omicidi, stragi e massacri sugli schermi grandi e piccoli, alla quale corrisponde con la medesima indifferenza emotiva il quotidiano resoconto di violenze reali in paesi lontani, martoriati da una guerra quasi sempre portata dalle potenze occidentali per un contributo importante alla loro crescita, ma presentata come il frutto dell’inciviltà di quei popoli.
La morte propria, dei familiari, dei parenti, degli amici, dei sodali, quella no, quella dev’essere assolutamente nascosta, dimenticata, rimossa senza eccezione e con qualsiasi mezzo. L’isolamento individualista della contemporaneità ha come scopo, non secondario, anche quello di non vivere la scomparsa biologica dell’Altro.
Per Philippe Ariès, che all’argomento s’è dedicato più di qualunque altro studioso[21], alla morte addomesticata del mondo passato si è sostituita la morte proibita: arriva ad affermare che il lutto adesso è quasi una masturbazione, un fatto assolutamente intimo e personale di cui vergognarsi.
Egli mostra con efficacia il baratro che ci separa dalla concezione dei secoli trascorsi. Nel presente si invidia chi muore senza accorgersene, nel Medioevo era al contrario considerata una grande fortuna potersi preparare alla morte e poterla affrontare in compagnia dei propri cari. Addirittura, prima del Duecento e ancor più prima del Mille, questo evento era così poco individuale che la salvezza dell’anima dipendeva essenzialmente dalla virtù della comunità (cristiana) a cui si apparteneva e non dalle azioni personali in vita.
Di fatto se pensiamo alla cultura contadina sopravvissuta in Italia fino a pochi decenni fa rinveniamo parecchie tracce di un modo collettivo di affrontare la morte, così come tutte le fasi di passaggio dell’esistenza a partire dalla nascita. In pochi attimi, se calcolati su scala storica, è avvenuta quella tragica, irreversibile trasformazione antropologica di cui ha esemplarmente narrato Pier Paolo Pasolini.
La società della crescita, nella sua smania di trascurare ogni limite[22], ha seppellito non solo la consapevolezza, risalente alla tragedia greca[23], che la morte conferisce un senso alla vita, ma anche il ben più recente essere-per-la-morte heideggeriano[24].
Come immaginare un rovesciamento completo di paradigma dinanzi a credenze così radicate? Sarà necessaria la pedagogia delle catastrofi? Ciascuno ha diritto di avere un’opinione in merito, a seconda del suo grado di ottimismo o pessimismo, ma di certo la fase di transizione non si presenta nella guisa di un comodo e facile passaggio[25].
L’atteggiamento nei riguardi di quel confine ineludibile che è la morte individuale ha e manterrà un ruolo fondamentale. La riappropriazione della dimensione simbolica della morte potrebbe salvarci dall’attuale pericolo esiziale costituito dall’eccesso di sicurezza e dalla fobia dello straniero, facendoci uscire dall’escalation delle catastrofi secondo Baudrillard: naturali, artificiali, programmate. Il filosofo francese auspica un’ecologia malefica[26], distante dalla cosmesi superficiale che ammanta di verde le abitudini consolidate: è un altro modo di chiamare la decrescita?
Nel modo di vedere di Roberto Esposito i periodi in cui prevale la tendenza immunitaria, isolazionista e individualista si alternano naturalmente a quelli ispirati al senso della comunità e del vivere insieme, in un moto pendolare in cui proprio la posizione estrema preannuncia il percorso verso il suo contrario[27].
S’imporrà insomma un ritorno alla solidarietà che nasce dalla tragicità del destino comune di morte, un richiamo alla responsabilità profonda a cui ci chiama la presenza altrui, come nella filosofia di Emmanuel Lévinas [28]. Meglio ancora se tale umanesimo si allargherà fino a un naturalismo che nell’alterità da rispettare e in cui riconoscersi includa ogni vivente, umano o no.
In ogni caso per molti aspetti sarà un cammino a ritroso volto a sfatare il mito affermato della crescita a tutti i costi: per usare le parole di Baudrillard, si tratterà forse di un palindromo o una palinodia [29].

 

Note

[1] Jean Baudrillard, Le strategie fatali, Milano, Feltrinelli, 2011 (prima ediz. orig. 1984)
[2] Hanna Arendt, Vita activa. La condizione umana, Milano, Bompiani, 2012 (prima ediz. orig. 1958)
[3] http://it.wikipedia.org/wiki/Cantico_delle_creature
[4] Jean Baudrillard, Lo scambio simbolico e la morte, Milano, Feltrinelli, 2009 (prima ediz. Orig. 1976)
[5] Ibidem, corsivo dell’Autore
[6] Ibidem, corsivi dell’Autore
[7] Ibidem, corsivi dell’Autore
[8] Richard C. Lewontin, Biologia come ideologia. La dottrina del DNA, Torino, Bollati Boringhieri, 1993 (prima ediz. orig. 1991) e Il sogno del genoma umano e altre illusioni della scienza, Roma-Bari, Laterza, 2004 (prima ediz. orig. 2000)
[9] Günther Anders, L’uomo è antiquato, 2 voll., Torino, Bollati Boringhieri, 2002 (prima ediz. orig. 1956-1980)
[10] Emanuele Severino, Téchne. Le radici della violenza, Milano, Rizzoli, 2010 (prima ediz. 1979)
[11] Zygmunt Bauman, Collateral Damage. Social Inequalities in a Global Age, Cambridge, Polity, 2011
[12] Ėmile Durkheim, Le forme elementari della vita religiosa, Udine, Mimesis, 2013 (prima ediz. orig. 1912)
[13] Serge Latouche, Come sopravvivere allo sviluppo. Dalla decolonizzazione dell’immaginario economico alla costruzione di una società alternativa, Torino, Bollati Boringhieri, 2005 (prima ediz. orig. 2004)
[14] Ivan Illich, Nemesi medica. L’espropriazione della salute, Como, Red, 2013 (prima ediz. orig. 1976)
[15] Roberto Esposito, Bios. Biopolitica e filosofia, Torino, Einaudi, 2004
[16] Idem, Immunitas, Protezione e negazione della vita, Torino, Einaudi, 2002
[17] Jean Baudrillard, Il delitto perfetto. La televisione ha ucciso la realtà?, Milano, Raffaello Cortina, 1996 (prima ediz. orig. 1995)
[18] Antonio Perniola, Il sex appeal dell’inorganico, Torino, Einaudi, 2004 (prima ediz. 1994)
[19] Louise J. Kaplan, Falsi idoli. Le culture del feticismo, Trento, Erickson, 2008 (prima ediz. orig. 2006)
[20] Paul Virilio, Velocità e politica. Saggio di dromologia, Milano, Multhipla, 1982 (prima ediz. orig. 1977)
[21] Philippe Ariès, Storia della morte in Occidente, Milano, Rizzoli, 2009 (prima ediz. orig. 1975).
[22] Serge Latouche, Limite, Torino, Bollati Boringhieri, 2012
[23] Sofocle, La morte di Eracle (Trachinie), Venezia, Marsilio, 2004.
[24] Martin Heidegger, Essere e tempo, Milano, Longanesi, 2014 (prima ediz. orig. 1927)
[25] Mauro Bonaiuti, La grande transizione. Dal declino alla società della decrescita, Torino, Bollati Boringhieri, 2013
[26] Jean Baudrillard, Il delitto perfetto, op. cit.
[27] Roberto Esposito, Immunitas, op. cit.
[28] Emmanuel Levinas, Umanesimo dell’altro uomo, Genova, Il melangolo, 1998 (prima ediz. orig. 1973)
[29] Jean Baudrillard, Le strategie fatali, op. cit.

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