Di Timothée Parrique, tradotto da Susanne Giovannini del Gruppo Internazionale. Dello stesso autore e sugli stessi argomenti abbiamo tradotto anche il commento ai rapporto dei secondo e del terzo gruppo di lavoro dell’IPCC (Intergovenmental Panel on Climate Change).

Ne anticipiamo qui subito la conclusione, per poi lasciarvi alla lettura dell’intero articolo. “Il Capitolo 5: “Domanda, servizi e aspetti sociali della mitigazione” è quindi un’ode alla decrescita. L’idea della “decrescita” pervade l’intero capitolo anche se esplicitamente citata solo 7 volte in tutto il rapporto sulla mitigazione. Bisogna considerare i tempi. Dopo trent’anni di politiche climatiche inefficaci, finalmente una nuova idea si pone in cima alla lista delle questioni in gioco. Invece di continuare i contrasti sul tema del disaccoppiamento, aspettando passivamente una quasi magica ecologizzazione del PIL, possiamo finalmente passare a considerare il Piano B. Dimentichiamo il tema del reddito per concentrarci piuttosto sui bisogni. Abbandoniamo gli aggregati delle medie del PIL pro capite per affrontare direttamente la questione dell’ineguaglianza. Smettiamola di considerare garantita la domanda, ma piuttosto cerchiamo di reinventare le modalità con cui soddisfare i nostri bisogni. Tale compito è grande ma almeno ora sappiamo che dobbiamo reinventare per noi stessi un nuovo sistema economico.”

 

Mi ci è voluto del tempo per analizzare le 107 pagine del Capitolo 5: “Domanda, servizi e aspetti sociali della mitigazione” (Chapter 5: Demand, services and social aspects of mitigation) nell’ultimo rapporto dell’IPCC sulla “Mitigazione del cambiamento climatico” (Mitigation of climate change). Il capitolo è interessante da leggere anche perché è il primo interamente dedicato alle strategie basate sulla domanda. Ciò che ho trovato degno di nota è la sua ampiezza concettuale poiché vi si possono trovare idee di solito considerate troppo radicali a questo riguardo. D’altro canto, come tutto il resto del report, questo capitolo è troppo lungo e pieno di definizioni astratte in uno stile noioso come del resto accade troppo spesso negli scritti accademici. L’intento di questo articolo è spiegare perché il Capitolo 5 esprime realmente concetti che sono più radicali (nel senso buono del termine) di quanto si possa immaginare.

Cosa vuol dire “domanda”

Nel capitolo si usano una varietà di terminologie riferite al concetto di domanda come: “drastiche riduzioni della domanda (deep demand reduction), “scenari in cui la domanda è scarsa” (low demand scenarios ), “domanda ridotta” (reduced demand ), “opzioni  dal lato della domanda” (demand-side options) e “misure da prendere dal lato della domanda” (demand-side measures). Prima di entrare nei dettagli, è bene chiarire cosa si intenda quando si parla di domanda. Tornando a l’Economics 101 (1) si afferma: “l’offerta ha a che vedere con la produzione e le misure prese dalla parte dell’offerta (supply-side measures) mirano a modificare i modelli di produzione. Nelle discussioni sul clima questo punto si risolve nel passaggio alle energie rinnovabili, nel rendere più efficiente la produzione nell’impiego delle risorse e nell’implementazione delle tecnologie per la rimozione del carbonio. La domanda, d’altro canto, ha a che vedere con il consumo e le misure da prendere dal lato della domanda (demand-side measures) definiscono le scelte negli stili di vita, le istituzioni e le norme culturali.

Nel rapporto si suddividono le misure da prendere dalla parte della domanda in tre tipi diversi: “evitare” (avoid),“cambiare” (shift), “migliorare” (improve) (2). L’“Evitare” consiste nel consumare di meno qualcosa; il “cambiare” consiste ne cambiare un tipo di consumo con un altro; e il “migliorare” riguarda il rendere ecologico un tipo di consumo già esistente. Se ci riferiamo alla riduzione dell’impronta di carbonio nella filiera del cibo, si possono “evitare” gli sprechi, “cambiare” il comportamento alimentare, e passare a una dieta vegan e, infine, “migliorare” l’attrezzatura che viene utilizzata per cucinare. Questo è il punto fondamentale nel capitolo: cosa possiamo evitare, cambiare e migliorare nei nostri consumi per ridurre le emissioni di gas serra?

Questa domanda, che potrebbe non sembrare così importante, in realtà lo è. Il dibattito sul clima, infatti, si è focalizzato per decenni sulla necessità del disaccoppiamento tra produzione e emissioni di gas serra. Considerando la questione con il senno di poi, però, sembra alquanto stupido aver passato così tanti anni nell’ossessione di rendere ecologica una produzione che si sarebbe potuta evitare sin dal principio. Dopo anni in cui ci si è scervellati sulla realizzazione di piani di sviluppo relativi a impianti alimentati a idrogeno, sulla realizzazione di auto elettriche e di carne sintetica, si realizza che sarebbe stato molto più efficace, e semplice, volare di meno, usare il trasporto pubblico e diventare vegan. Questo è il motivo per cui il Capitolo 5 è così straordinario.

A chi si riferisce la domanda?

Il problema è che l’approccio basato sull’offerta oscura la questione delle disuguaglianze. Quando si dice che si dovrebbe migliorare l’efficienza in termini di emissione di carbonio di un aereo, si mette da parte la questione del chi stia realmente volando e il perché. Dalla prospettiva della “domanda”, comunque, la questione dell’ineguaglianza nei livelli del consumo diventa cruciale. Si metta da parte, per ora, la questione dell’”efficienza” perché la mitigazione del clima è piuttosto, e soprattutto, una questione di “sufficienza” (sufficiency). Quest’ultima si intende come: “misure e pratiche quotidiane per evitare la domanda di energia, di materie, di terreno e di acqua mentre si cerca di distribuire il benessere per tutti gli esseri umani all’interno dei confini del pianeta,” nella definizione del SPM (Summary for Policymakers). Questo è il punto in cui il concetto di “bisogni fondamentali e benessere per tutti all’interno dei confini del pianeta” acquista tutta la sua portata rivoluzionaria. In un mondo in cui vi sono diseguaglianze, in cui vi è un budget di carbonio che deve essere limitato, bisognerebbe concentrare il dibattito sulla questione relativa a chi ha il diritto di consumare e di cosa debba essere consumato. Se pensate che tale questione sia troppo polemica o filosofica per un rapporto dell’IPCC, ripensateci. Siamo arrivati al punto in cui si può affrontare il paragrafo che è forse il più importante del Capitolo 5 (p. 29-30) e che dovrò suddividere in cinque parti minori.

“La distinzione tra bisogni e lussi aiuta a inquadrare una parte sempre più importante della letteratura nelle scienze sociali di rilievo per le politiche sul clima (Arrow et al. 2004Ramakrishnan and Creutzig 2021).”

Non siamo abituati a sentir parlare di bisogni e lussi nelle politiche sul clima. Si dà per assunto, invece, più in generale che i nostri consumi possano essere resi ecologici nel loro insieme. Oramai siamo a conoscenza che ciò non è possibile (questo è un appunto che ho fatto riguardo ai limiti nel processo di transizione per una crescita verde in un articolo precedente). Il fallimento delle strategie per il disaccoppiamento, e la crescente urgenza di evitare il collasso del clima, ci pone nella posizione inconsueta di dover scegliere tra due situazioni diverse: sostenere gli attuali livelli di consumo o preservare la stabilità climatica. Tale fatto mi porta a ricordare le affermazioni finali nel rapporto: “I limiti dello sviluppo” (The limits to Growth) in cui cinquant’anni fa già si dichiarava: “Non appena una società riconosce che non è possibile massimizzare qualsiasi cosa per chiunque, deve cominciare a fare delle scelte. Le scelte riguardano questioni come: vi devono essere più persone o più ricchezza, più natura incontaminata o più automobili, più cibo per i poveri o più servizi per i ricchi?” Questa è la scelta che dobbiamo affrontare in questo momento.

[…] “Visto il sostegno crescente del pubblico in tutto il mondo a favore di una forte sostenibilità, della sufficienza e del consumo sostenibile, la questione del cambiamento dei modelli su cui si basa la domanda, e la riduzione della domanda stessa, sono questioni di rilievo che accompagnano il tema dei benefici ambientali e sociali ( Jackson 2008Fedrigo et al. 2010Schroeder 2013Figge et al. 2014Spangenberg and Germany 2016Spengler 2016Mont et al. 2020Burke 2020) .

Mi esprimo con parole più semplici: consumare di meno, e in modo differente, è un bene sia per le persone che per il pianeta. Questa è la sostanza che viene espressa in (Jackson 2008, p.21) definita il “doppio effetto positivo” (double dividend) descritto nel seguente modo: “Se gli stili di vita del consumatore sono un danno per l’ecologia, e sono anche negativi per la psiche del consumatore stesso, rimane la possibilità che potremmo vivere meglio consumando di meno riducendo, al contempo, il nostro impatto sull’ambiente.”

[…] “Al di là di una certa soglia l’incremento nel consumo materiale non è più strettamente correlato con un miglioramento nel progresso dell’umanità (Kahneman and Deaton 2010Vita et al. 2019b2020Frank 1999Steinberger and Roberts 2010Oishi et al. 2018Xie et al. 2018Wang et al. 2019Roy et al. 2012).”

Questa è definita l‘ipotesi della saturazione (saturation hypothesis, anche chiamata il “paradosso di Easterlin”, Easterlin Paradox, o il “paradosso del benessere e del consumo”, wellbeing-consumption paradox) che è sintetizzata in un’altra parte del Capitolo 5: “le dimensioni vitali del benessere dell’uomo sono correlate con il consumo, ma solo fino a una certa soglia” (p. 19). Se hai bisogno di andare da qualche parte e improvvisamente hai la possibilità di avere una bicicletta, sarai contento.  Se si aggiunge una seconda bicicletta sarai forse egualmente felice, ma non allo stesso livello in cui lo eri la prima volta. Se si aggiunge una terza bicicletta non avrai alcun interesse ad utilizzarla perché già ne hai due. Se si aggiungono altre 10 biciclette, sarai realmente infastidito perché non saprai dove metterle. Dopo una certa soglia di consumo (in questo caso il numero delle biciclette) il benessere che se ne ricava è saturo. Questo fatto – che è comprensibile per il buon senso individuale – è vero anche se si prende in considerazione per un paese nel suo complesso: superata una certa soglia di PIL pro capite l’ulteriore crescita economica non aumenterà il benessere.

L’idea della soglia in cui si raggiunge la “sazietà” divide il consumo in due tipologie: l’uno si trova al di sotto della soglia e, quindi, dovrebbe essere aumentato, e l’altro al di sopra della soglia e, quindi, dovrebbe essere ridotto. Se sei malnutrito vuol dire che stai consumando al di sotto della soglia (under-consuming) e hai bisogno di consumare di più per raggiungere un livello che sia sufficiente; se, invece, stai soffrendo di obesità è probabile che stai consumando troppo (over- consuming) e la tua strategia per raggiungere il benessere consisterà nel consumare di meno. Poiché la carne ha un’elevata impronta di carbonio, consumarne di meno avrà un “doppio effetto positivo” (double dividend): le emissioni si ridurranno e, al contempo, la salute migliorerà. Se allora immaginiamo che la quantità di carne, o il budget di carbonio associato con il suo consumo, sia limitato: dovremmo piuttosto nutrire con la carne il malnutrito o alimentare con essa coloro che stanno al di sopra della soglia in cui hanno già raggiunto la sazietà (satiation point)? La questione è che ogni risorsa naturale è sostanzialmente limitata, il che in definitiva significa questo: in un mondo finito il troppo delle persone che sono al di sopra dei livelli degli “standard di vita decente” (Decent Living Standards) (p. I8) rapidamente diventerà il non abbastanza per le altre.

[…] “Le politiche focalizzate sui “super ricchi”, anche definite l’”élite inquinante” (polluter elite), stanno suscitando interesse sia per ragioni morali, o di regolamentazione, che per motivazioni basate sulla necessità di ridurre le emissioni (Kenner 2019Pascale et al. 2020Stratford 2020Otto et al. 2019) (vedi la sezione 5.2.2.3). Il cospicuo consumo dei ricchi è causa di una vasta proporzione delle emissioni di gas serra in tutti i paesi. Queste sono derivate da spese come viaggi in aereo, turismo, grande quantità di veicoli privati e grandi proprietà immobiliari (Preston 2010 (3), Gore 2015Sahakian 2018Osuoka and Haruna 2019Lynch et al. 2019Roy and Pal 2009Hubacek et al. 2017Jorgenson et al. 2017Gössling 2019Kenner 2019Roy et al. 2012).

L‘élite inquinante“ (polluter elite) è un termine creato da Dario Kenner nel formare un database sulla gente ricca che possiede una significativa quantità di azioni in compagnie inquinanti (vedi: “L’ineguaglianza nel carbonio: il ruolo dei più ricchi nel cambiamento climatico”, Carbon Inequality: The Role of the Richest in Climate Change). Il problema climatico legato alla ricchezza non è solo una questione di stili di vita, ma anche una questione di investimenti. Le persone ricche infatti consumano solo una parte dei propri introiti, il resto viene investito in svariati progetti di cui molti sono disastrosi per il pianeta. Gli azionisti, infatti, quando organizzano la produzione tendono a difendere gli introiti finanziari mettendo da parte le questioni sociali e quelle ecologiche. Questo è il motivo per cui le attività più lucrative sono spesso anche le meno sostenibili dal punto di vista sociale ed ecologico. Trascinati da obiettivi finanziari a breve termine, questi attori hanno un incentivo a incrementare le vendite. Quanto più soldi ricevono in cambio, tanto più possono reinvestire dando loro un controllo sulla produzione ancora più grande.

Di certo, anche le emissioni causate dagli stili di vita danno un loto contributo. Il termine “super-ricchi” (super-rich) è stato tratto da un articolo in Nature, Otto et al. (2019), in cui si stima l’impronta ecologica di un tipico nucleo familiare di “super-ricchi” in circa 129.3 tonnellate di anidride carbonica emesse all’anno. In Lynch et al. (2019, p.1) si definisce il consumo di super yacht di lusso, di grandi abitazioni, di veicoli di lusso e di jet privati, come “criminale” poiché: “si distrugge la normale capacità rigenerativa degli ecosistemi generando un’eccessiva disorganizzazione in termini ecologici.” Il paragrafo cita un rapporto di Oxfam del 2015 (2015 Oxfam report) che dimostra che il 10% delle persone più ricche al mondo sono responsabili del 50% delle emissioni globali. Giacché i ricchi emettono così tanto in più rispetto al resto della popolazione, l’allargarsi delle diseguaglianze conduce necessariamente ad un aumento delle emissioni totali come si mostra in Jorgenson et al. (2017) per il caso degli Stati Uniti. Se non fosse ancora ovvio considerando quanto prima, il punto essenziale da cogliere è che le persone ricche devono consumare di meno (4).

[—] “Siccome nessun paese attualmente va incontro alle necessità di base dei cittadini con un livello d’uso delle risorse che sia sostenibile a livello globale – mentre in realtà servono molte più risorse per innalzare i livelli di soddisfazione di vita di coloro che sono in fuga dalla povertà estrema – è grande la necessità di un cambiamento trasformativo per quanto riguarda le politiche e la governance (O’Neill et al. 2018Vogel et al. 2021).

La frase è ambigua, per cui mi permetto di riformularla. Viviamo in un mondo in cui la povertà ancora è diffusa e coloro che hanno dei bisogni non soddisfatti necessitano di più risorse. Stiamo, però, anche in un mondo limitato a livello ecologico in cui si combatte per ridurre il più velocemente possibile le emissioni di gas serra. In questo contesto, la riduzione dei consumi nel Nord globale (e più in generale da parte di tutti coloro che stanno consumando eccessivamente, over-consuming) può liberare alcune di queste risorse a favore di coloro che ne hanno più bisogno. Assicurare i “bisogni essenziali e il benessere per tutti”  (basic needs and well-being for all) necessariamente implica la limitazione del consumo nelle regioni del mondo ad alto reddito e nei nuclei familiari più ricchi e,  questo, allo scopo di permettere ai paesi e alle famiglie povere di risorse il raggiungimento di standard di vita decenti. In altre parole, la decrescita nel Nord globale è un prerequisito per uno sviluppo sostenibile nel Sud globale.

Ridurre la domanda è decrescita

Tutto ciò vorrebbe dire che il Capitolo 5 è una chiamata per la decrescita? La risposta è un sonoro si. La decrescita come: una riduzione della produzione e dei consumi nei paesi ricchi che sia pianificata e democratica per ridurre le pressioni ambientali e le disuguaglianze, mentre cresce il benessere, questo è ciò di cui ci parla il Capitolo 5. Molti degli autori del rapporto potrebbero non gradire il termine, ma l’idea sostanziale consiste nel fatto che ridurre la domanda è decrescita. Vorrei, inoltre, sottolineare che vi è anche un riferimento esplicito del termine in questo capitolo.

“Le riduzioni dei consumi, sia su base volontarie che guidata dalla politica, può avere effetti positivi e anche “effetti doppiamente positivi” (double-dividend effects) sia per quanto riguarda l’efficienza che per la riduzione dell’uso dell’energia e delle materie prime. (Mulder et al. 2006Harriss and Shui 2010Grinde et al. 2018Spangenberg and Lorek 2019Figge et al. 2014Vita et al. 2020). Meno sprechi, migliore controllo sulle emissioni e più effettive politiche sul carbonio permettono di migliorare la governance e a rinforzare le democrazie. I modelli strutturati su sistemi dinamici che uniscono politiche di forte riduzione delle emissioni a politiche energiche a favore dell’equità sociale, mostrano che una transizione basata su un livello di carbonio ridotto, unita alla sostenibilità sociale, è possibile e, questo, anche in assenza di crescita economica (Kallis et al. 2012Jackson and Victor 2016Stuart et al. 2017; [D’Alessandro et al. 2020]; Huang et al. 2019Victor 2019Chapman and Fraser 2019Gabriel and Bond 2019). Tali percorsi di decrescita possono essere cruciali nel combinare la fattibilità tecnica della mitigazione con gli obiettivi dello sviluppo sociale (Hickel et al. 2021Keyßer and Lenzen 2021)” (C. 5 p.32).

La decrescita, intesa come una strategia complessiva per ridurre le attività economiche su una scala più sostenibile, presume necessariamente delle riduzioni volontarie, o guidate dalla politica, dei consumi. Molte delle sessanta opzioni riguardanti la domanda che sono presentate nel capitolo fanno parte dell’agenda della decrescita. I cinque interventi più efficaci per ridurre le emissioni dal punto di vista dell’”evitare” (avoid-related interventions), hanno a che fare con abbandonare le macchine e volare di meno. Le dieci opzioni più efficaci per quanto riguarda il “cambiamento” (shift) riguardano il trasporto pubblico, la dieta vegana e vegetariana, la carne a ridotto impatto di carbonio, il cibo biologico, la mobilità attiva e il consumo di cibo a livello locale. Le opzioni che invece riguardano il “miglioramento” (improve options) (le macchine elettriche, la ristrutturazione e il rinnovamento delle strutture, le pompe a calore) costituiscono anch’esse una parte importante del dibattito sulla decrescita.

Vi è sicuramente una differenza tra raccomandare di diventare vegan e richiamare a una revisione del capitalismo (come fa la decrescita). Su questo, il capitolo è debole dal punto di vista concettuale. Si auspica in esso una riduzione radicale della domanda ma è carente nell’esplorare le implicazioni sistemiche diffuse. Dal punto di vista della decrescita, l’elettricità rinnovabile è più desiderabile nella forma a basso contenuto di tecnologia (low-tech) e con infrastrutture di proprietà della comunità. Le auto elettriche possono essere utili per sostituire i veicoli privati necessari, come lo sono i camion per le consegne, i taxi e le ambulanze, ma non devono essere considerate un modo per sostenere un sistema di trasporto basato sulla macchina. La ristrutturazione, e il rinnovamento, degli edifici adibiti ad abitazione è un compito considerato urgente, ma deve essere affidato ad aziende no profit finanziate in parte dallo stato. Il trasporto pubblico dovrebbe essere trattato come un diritto sociale e organizzato secondo le logiche dei “Servizi universali di base” (Universal Basic Services).

“Gli standard di vita decente (Decent Living Standards, DLS) sono utili come riferimenti socioeconomici proprio in quanto considerano il benessere umano non in relazione al consumo ma piuttosto in termini di servizi. Questi, nell’insieme, aiutano a far fronte bisogni fondamentali dell’uomo come: la nutrizione, l’abitare, la salute, etc. Va, inoltre, riconosciuto che tale necessità dei servizi possono essere ricercati con modalità molto diverse (con diverse implicazioni per le emissioni) in quanto dipendono dai contesti locali, dalle culture, dalla geografia, dalle tecnologie disponibili, dalle preferenze sociali e da altri fattori” (p. 17).

E’ difficile a questo punto non pensare a Manfred Max-Neef e al suo Matrix of Fundamental Human Needs (Matrice dei bisogni fondamentali dell’uomo)  o al concetto di Amartya Sen di “capabilities” (capacitazioni). Gli standard di vita decente non sono una questione di soldi ma di “capacità”, solo alcune delle quali sono dipendenti dai soldi. Il perseguimento di una crescita economica infinita in Nazioni che hanno già superato la soglia di “sazieta” (satiation threshold), costituisce una strategia di sviluppo sbagliata. Tale strategia può essere anche controproducente se ciò che viene sacrificato in nome della produzione (tempo libero, materie scarse, un budget del carbonio che è limitato) ha un valore reale molto più elevato per il benessere dell’uomo rispetto all’incremento del reddito ottenuto. Una strategia di sviluppo focalizzata sulla salute, la convivialità e la sostenibilità, è molto più adatta ad assicurare la prosperità rispetto all’attenzione monomaniacale su questioni legate al denaro. Per meglio dire con le parole dell’IPCC: “Lo sviluppo impostato sulla considerazione dei bisogni essenziali e sul benessere per tutti, implica una minore intensità di carbonio rispetto alla crescita basata sul PIL” (p. 15).

“Le società eque e democratiche che provvedono a servizi pubblici di alta qualità hanno risultati alti nel livello di benessere con un consumo d’energia più ridotto rispetto a quelle società che non vi provvedono. Le società che, danno priorità alla crescita economica rispetto al contenimento dei profitti, e dei settori estrattivi, mostrano, invece, l’effetto inverso. (Vogel et al. 2021)” (p. 27).

Questo è il motivo per cui gli autori del Capitolo 5 auspicano di: “dare priorità al benessere dell’uomo e all’ambiente, al di sopra della crescita economica” (p. 17). Lasciamo per un momento questa affermazione e pensiamo alle sue radicali implicazioni. Dare priorità alle persone e al pianeta al di sopra dei profitti vuol dire che, per quanto un’attività sia lucrativa, la sua raison d’être dovrà essere valutata sistematicamente in considerazione dell’utilità sociale e della sostenibilità ecologica. Da questo principio deriva un corollario tanto semplice quanto molto più provocatorio: saremo costretti a bloccare una grande quantità delle attività economiche che sono presenti nei nostri giorni. Interi settori come: la pubblicità, la gestione immobiliare e i servizi finanziari; anche prodotti come SUV, jet privati e dati personali, devono semplicemente smettere di esistere. Ridurre radicalmente la domanda vuol dire smantellare una larga parte della nostra economia.

“Questi cinque fattori trainanti del comportamento umano contribuiscono allo status quo dell’elevato consumo globale di carbonio, contribuiscono al consumo e a un’economia orientata alla crescita del PIL ma possono altrimenti aiutare a generare il cambiamento che è auspicabile verso servizi energetici a basso contenuto di carbonio e verso il benessere in un’economia orientata all’equità sociale (Jackson 2017Cassiers et al. 2018Yuana et al. 2020)” (p.17).

Il punto per me fondamentale è il seguente: le strategie basate sulla domanda non dovrebbero essere trattate come semplici aggiustamenti di stili di vita e vanno più in profondità di questi. Per permettere la radicale riduzione, di cui si parla nel Capitolo 5, e per assicurare la nostra capacità di “prosperare senza crescita” (prosper without growth, Jackson, 2017) o, per altri versi, per garantire le necessità di base e il benessere per tutti, all’interno dei confini del pianeta, come si esprimerebbero gli autori dell’IPCC, dobbiamo ripensare completamente il nostro sistema economico. Abbiamo bisogno di una transizione da un’economia orientata alla crescita, a un’economia con servizi ed energia a basso contenuto di carbonio (low-carbon energy-services) basata sul benessere e orientata all’equità sociale – un’ “economia quindi della post-crescita” (post-growth economy) (Cassiers et al., 2018).

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Il Capitolo 5: “Domanda, servizi e aspetti sociali della mitigazione” è quindi un’ode alla decrescita. L’idea della “decrescita” pervade l’intero capitolo anche se esplicitamente citata solo 7 volte in tutto il rapporto sulla mitigazione. Bisogna considerare i tempi. Dopo trent’anni di politiche climatiche inefficaci, finalmente una nuova idea si pone in cima alla lista delle questioni in gioco. Invece di continuare i contrasti sul tema del disaccoppiamento, aspettando passivamente una quasi magica ecologizzazione del PIL, possiamo finalmente passare a considerare il Piano B. Dimentichiamo il tema del reddito per concentrarci piuttosto sui bisogni. Abbandoniamo gli aggregati delle medie del PIL pro capite per affrontare direttamente la questione dell’ineguaglianza. Smettiamola di considerare garantita la domanda, ma piuttosto cerchiamo di reinventare le modalità con cui soddisfare i nostri bisogni. Tale compito è grande ma almeno ora sappiamo che dobbiamo reinventare per noi stessi un nuovo sistema economico.

Note:

L’allegato I: Glossario (Annex I: Glossary) (p. 19) definisce le “misure relative alla domanda” (demand-side measures) come: “politiche e programmi per influenzare la domanda per i beni e/o servizi. Nel settore energetico, le misure di mitigazione relative alla domanda hanno lo scopo di diminuire la quantità di gas serra emesso tenendo conto dell’emissione per unità di servizio energetico usato.”
(1) L’Autore fa riferimento al saggio di Alfred Mill, “Economics 101: From Consumer Behaviour to Competitive Markets-Everything you need to know about Economics”,  Alfred Media Corporation, 2016.
(2) L’approccio A-S-I (Avoid, Shift, Improve) non è nuovo. E’ stato sviluppato in Germania, agli inizi degli anni Novanta, come un modo per ridurre l’impatto ambientale dei trasporti e migliorare la qualità della vita nelle città (per quanto mi è dato sapere, è stato menzionato per la prima volta ufficialmente in un rapporto per una commissione d’inchiesta del parlamento tedesco, Enquete Commission, nel 1994).
(3) Il riferimento manca in biografia, ma penso si riferisca a Brand and Preston (2010) uno studio sulle emissioni legate ai trasporti nel Regno Unito in cui si mostrava che il 20% di coloro che emettevano più emissioni era responsabile del 61% delle emissioni complessive. Viene chiamata la regola dei 60-20 per le emissioni (60-20 emission rule).
(4) Il punto, in realtà, ci riporta al “Sommario esecutivo” (Executive Summary) del Capitolo 5 (“Le persone ricche contribuiscono in modo sproporzionato alle emissioni più grandi e sono un grande potenziale per le riduzioni delle emissioni stesse, sempre mantenendo gli standard di vita decente e il benessere,” p. 4) e al “Sommario per i decisori politici (Summary for Policymakers) (Cap. 10.4: “Affrontare il problema delle diseguaglianze, e molte forme di consumo legate allo status, focalizzando sul benessere come supporto agli sforzi per mitigare il cambiamento climatico”, Addressing inequality and many forms of status consumption and focusing on wellbeing supports climate change mitigation efforts).