Di Paolo Cacciari – pubblicata anche su comune-info.it. Immagine di Sky TG24

 

Dobbiamo tutti essere immensamente grati a Greta Thunberg per quello che è riuscita  già a fare e sta facendo, a soli vent’anni, per richiamare l’attenzione sulla “crisi climatica ed ecologica”, che si configura come “una crisi esistenziale capace di mettere a rischio la sopravvivenza della nostra civiltà” (p.279). Da ultimo l’attivista svedese ha realizzato un’importante, utile ed intelligente operazione editoriale raccogliendo brevi contributi di più di cento scienziati di svariate discipline “dure”, ma anche di economisti, sociologi, psicologi, giornalisti offendo un quadro davvero completo di tutto ciò che bisogna sapere sul fenomeno del surriscaldamento dell’atmosfera. Ne è uscito The Climate Book (Mondadori, 2022, p.446, Euro 28), un tomo che deve essere posto nelle nostre librerie a portata di mano vicino ai dizionari e alle enciclopedie.

Qualcosa già sapevamo – si intende – essendo ormai note le ricerche fondamentali di scienziati come Johan Rockström sui limiti biogeofisici planetari e Bill McKibben sulle soglie di anidride carbonica ammissibili in atmosfera, degli economisti Nicholas Stern sui costi dei danni ambientali e Thomas Piketty sull’ingiustizia distributiva, delle giornaliste Elizabeth Kolbert sui fallimenti della geoingegneria e Naomi Klein sulle distorsioni del mercato, degli antropologi Jason Hickel sulla differenza tra benessere e crescita e Amitav Chosh sulla storia del surriscaldamento climatico come sopruso dell’Occidente nei confronti del Sud del mondo… solo per citare alcuni autori e autrici che abbiamo avuto la fortuna di leggere anche in traduzioni in italiano. Ma fa davvero impressione avere sott’occhio in uno stesso testo l’ampiezza dello spettro delle distruzioni che un clima collassato arreca ai sistemi di supporto naturali primari della vita sul pianeta, salute umana compresa – malattie zoonotiche docet. Veniamo a sapere che anche piccole variazioni di temperatura provocano la rottura dei delicati equilibri che regolano la “respirazione della superficie della terra”, ovvero del bilancio tra carbonio organico, che rende fertile la terra, e il carbonio presente in atmosfera (Jennifer L. Soog). Scopriamo che ai problemi creati agli insetti dai pesticidi e dai fertilizzati – già denunciati da Rachel Carson sessant’anni fa – si aggiungono ora quelli dello “spezzettamento” degli habitat che ne riducono gli areali.  È  in atto un’“apocalisse di insetti” (Dave Goulson) che rappresentano la maggior parte della vita sulla Terra (sia in termini di numero di specie che di biomassa) e contribuiscono a mantenere sano il suolo e la vegetazione (decomposizione e impollinazione). Ancora più noti gli effetti del riscaldamento sugli oceani: diminuzione della capacità di assorbimento dell’anidride carbonica, innalzamento dei livelli medio marini, maggiore evaporazione e maggiore forza dei cicloni tropicali, modificazione della circolazione delle correnti atlantiche, acidificazione, collasso degli ecosistemi marini (Stefan Rahmstorf, Hans-Otto Pörtner).

La rassegna collazionata da Greta Thunberg non si ferma alle evidenze scientifiche del collasso climatico, prende in esame le responsabilità politiche e le odiose ripercussioni sulla vita delle persone per cui a pagare sono soprattutto le popolazioni che meno hanno contribuito all’accumulo delle emissioni climalteranti. Scrive molto giustamente Thunberg: “Siamo tutti in balia della stessa tempesta, ma di certo non siamo tutti sulla stessa barca” (p.157), qualcuno è più resiliente. “Il fatto che 3 miliardi di persone al mondo consumino meno energia, su base annua pro capite, rispetto ad un frigorifero americano dà l’idea di quanto siamo distanti dalla parità globale e dalla giustizia climatica” (p.154). Da almeno ciquant’anni le imprese, le agenzie pubbliche, i governi conoscono perfettamente l’entità, l’origine, le conseguenze letali del sistema termoindustriale installato sul pianeta. Così come note sono le indicazioni, gli appelli, le proposte concrete che vengono dal mondo scientifico e dai movimenti ambientalisti mirate a fermare una deriva autodistruttiva. La storia cinica e truffaldina dal “negazionismo” (Kevin Anderson), al greenwahing, all’ “inattivismo” dei governi è confermata dallo scostamento crescente tra  gli impegni roboanti (ma sempre “volontari” e “non vincolanti”) che vengono annunciati nelle conferenze internazionali e i risultati reali. Impietoso è il grafico (p. 28) in cui le date dei vari accordi sottoscritti a Stococlma, New York, Kyoto, Parigi, Glagow… da cinquant’anni segnano l’aumento lineare costante delle concentrazioni di CO2 in atmosfera. “Dalla fondazione dell’IPCC nel 1988 le nostre emissioni sono più che raddoppiate” (p.157). Il nuovo record è dello scorso anno. Insomma è più che mai motivato il coraggioso, irriverente  “Bla, bla, bla” lanciato da Greta in faccia ai potenti della Terra.

Il re – quindi – è stato denudato, tutti lo possono vedere, ma ciò nonostante non cambia nulla nei comportmenti delle imprese e nelle politiche pubbliche. Come mai? Questa è la domanda che con un po’ di angoscia – considerando la stretta finestra temporale a disposizione prima del punto di non ritorno – tutti ci dovremmo porre. The Climate Book è importante proprio perché – attraverso le introduzioni scritte di pugno da Greta Thunberg che inanellano i 16 capitoli di cui il libro è suddiviso – ci dà modo di conoscere le risposte che la più influente leader dei movimenti ambientalisti del momento dà a questo interrogativo fondamentale.

I pilastri del pensiero di Thunberg sono bene impiantati. La crisi ecologica è sistemica, tutto è interconnesso e interrelato. Manca un richiamo diretto all’“ecologia integrale” di Bergoglio ed anche ai padri dell’ecologismo, ma si afferma inequivocabilmente che: “La crisi climatica è, ovviamente, solo un sintomo di una ben più ampia crisi della sostenibilità.” (p.3). Ancora: “Anche la crisi climatica è un sintomo (o un risultato, se preferite) di una ben più profonda crisi di sostenibilità. In altre parole, la radice del problema non è l’incremento della temperatura media. È piuttosto il fatto che stiamo vivendo di gran lunga al di sopra dei nostri mezzi, sfruttando le persone e il pianeta. O, per essere più precisi, questo è quello che sta facendo un ridotto numero di noi” (p.132).

Dalla consapevolezza dell’interdipendenza di ogni cosa dal mondo vivente si affaccia un critica sottintesa ai codici culturali profondi della civiltà occidentale: l’antropocentrismo, l’utilitarismo, il controllo e la volontà di dominio sulla natura. Dice Thunberg: “il mondo non è nostro. (…) via via che prendiamo le distanze dalla natura diventa sempre più difficile ricordarci che ne facciamo parte. Siamo, dopotutto, una specie animale tra tante” (p.19). L’attivista svedese traccia aperture di prospettiva storica e antropologica: “La crisi climatica ed ecologica si è andata accumulando e in ultima analisi risale all’era coloniale e ancor prima [sottolineatura mia]. È una crisi basata sull’idea che alcuni valgano più di altri e che abbiano pertanto il diritto di rubare al prossimo la terra, risorse, futuri standard di vita e persino la vita stessa” (p.19). E ancora: “La crisi climatica l’abbiamo creata noi, le nazioni del Nord globale. È una crisi di disuguaglianza che risale al colonialismo e oltre”. (p.389). Ma, nell’analisi, Thunberg si ferma a denunciare gli effetti a partire dal tempo dalla “colonizzazione europea delle Americhe” (p.387) senza mettere sotto critica le origini culturali della Modernità e la storia lunga della occidentalizzazione del globo. Ciò porta ad incomprensioni quando nel testo si usa il termine civiltà come sinonimo di genere umano e umanità, per cui la nostra sarebbe “l’unica civiltà di cui siamo a conoscenza nell’intero universo” (p.301). Eppure l’autrice stessa richiama più volte l’attenzione su popoli e popolazioni (i sami, le popolazioni indigene dell’Amazzonia, il popolo lakota e altri) che non hanno voluto sottomettersi ai canoni genocidi della civiltà occidentale, intesa genericamente come “Nord globale”, senza altre specificazioni, principalmente, quella di essere un’economia di mercato dominata dal capitalismo.

Il pensiero sistemico porta Thunberg ad una giusta convinzione: i cambiamenti necessari, per essere all’altezza della sfida, devono essere altrettanto radicali e completi. Nessuna concessione, quindi, a soluzioni parziali, anche se tecnologicamente seducente (come la geoingegneria che cattura il carbonio), e alle false illusioni dello “sviluppo green” (p.3). Sono “le strutture sociali ed economiche (…) a spingerci verso il baratro ecologico” (p.132). “Non possiamo vivere in un modo sostenibile all’interno del sistema economico moderno.” (p.302). “Non dobbiamo più definire il progresso solo in base alla crescita economica, al prodotto interno lordo. Abbiamo bisogno di andare oltre il consumismo compulsivo e ridefinire la crescita. Abbiamo bisogno di un modo di pensare completamente nuovo.” (p.280). “Dobbiamo modificare per intero le nostre società” (p.324). “Dobbiamo ridefinire il nostro concetto di progresso” (p.427). Per essere sostanziali i cambiamenti devono toccare tutte le sfere della vita delle persone: da quelle più intime, morali e comportamentali, alle relazioni sociali, alle politiche istituzionali. Nessun riflusso individualista, nessuna illusione che le cose possano cambiare modificando solo i singoli comportamenti. Thunberg chiama ad una mobilitazione collettiva che deve essere capace di incidere sulle scelte pubbliche. Il suo si configura come un invito fortissimo, accorato e pieno di fiducia all’apprendimento e all’attivismo. Alcune parti del volume sono un manifesto e un manuale dei Friday For Future. “Non siamo un’organizzazione politica, siamo un movimento dal basso che punta a diffondere informazione e consapevolezza. Non ci interessano i compromessi e gli accordi. Diciamo solo le cose come stanno” (p.355). Davvero forte il capitolo E’ qui che tracciamo la linea: “Io dico basta. Io dico ‘Teniamo la posizione’. I nostri cosiddetti leader pensano ancora di poter contrattare con la fisica e patteggiare con le leggi della natura. Parlano a fiori e foreste nella lingua dei dollari americani e dell’economia a breve termine. Presentano i loro rapporti trimestrali sul reddito e pensano che gli animali selvatici ne rimangano impressionati.” (p.305). “La nostra principale priorità deve essere ancora quella di svegliare le persone.” (p.280). “Siete pronti ad uscire dalla vostra ‘comfort zone’ e a diventare parte di un movimento che realizzi le trasfromazioni sistemiche di cui abbiamo bisogno?” (p.354).

Questo giusto posizionamento etico lascia, inevitabilmente, molti interrogativi politici aperti. Quali sono i modi e le forme che questi movimenti devono adottare per potersi affermare? Come potranno determinare l’auspicato cambiamento?

 

Le idee base su cui poggia il pensiero di Thunberg sono esposte chiaramente in questo volume. A me sembrano essenzialmente tre: la inoppugnabilità della verità scientifica come sfera indipendente; la centralità degli strumenti giornalistici di intermediazione dell’informazione (i “media”); la democrazia come metodologia ottimale dei processi decisionali. Vediamole più in dettaglio.

i) “La scienza è quanto di più solido possa esistere” (p.21). “La scienza è prudente e scrupolosa” (p.301). Serve solo che gli scienziati siano più fermi nel dire la verità e non si facciano irretire dalle imprese (il cui fine è solo fare business) e dai governi (il cui fine è farsi rielegere).

ii) “Senza i media, banalmente non c’è modo di raggiungere i nostri obiettivi” (435). Serve quindi che i giornalisti si assumano la responsabilità etica della loro professione. Devono “raccontare la verità” (p.355). Serve sturare l’imbuto poiché siamo in una “crisi di informazioni che non passano, perché non vengono raccontate, confezionate o veicolate nel modo in cui dovrebbero” (p.356). Mentre invece: “I media hanno permesso a chi detiene il potere di dare vita ad una gigantesca macchina di greenwashing, progettata per condurre come al solito gli affari a beneficio di politiche economiche a breve termine” (p. 359). “Per cui, cari media, siete al posto di guida. Avete la capacità di condurci fuori dal pericolo. Scegliere di tramutare questa capacità e responsabilità in missioneè una decisione che spetta a voi, e a voi soltanto” (p.359). L’“opinione pubblica” sembra essere il terreno su cui si gioca la partita.

iii) “Essere un rappresentante eletto in questo momento storico significa avere responsabilità e occasioni che vanno al di là di qualsiasi immaginazione.” (p.435). Dobbiamo quindi influenzare “i nostri leader politici” (358) fino a costringerli a cambiare le politiche. Come? Con il voto (“un dovere fondamentale” p.424), ma, prima di tutto, “richiamando chi detiene il potere alle proprie responsabilità ” (p.358). Come? Facendo emergere “secoli di malefatte da ammettere e a cui porre rimedio” (p.358). Poiché: “Il senso di colpa non è, in realtà, di per sé una cosa negativa. Al contrario, è una componente necessaria di una società che funziona” (p.358). Vergognatevi e ricredetevi!

Come si può vedere il punto di leva della Visione di Greta – se mi è consentito chiamare così il suo progetto –  sta nella forza morale del messaggio. “Come facciamo ad affrontare una crisi fondamentale innescata da ingiustizia e diseguaglianze se non ci è permesso di parlare di moralità, giustizia, responsabilità, vergogna e colpa?”. (p.357). “La colpa, la vergogna, la moralità e la giustizia si fondano su norme sociali, e le norme sociali si possono cambiare con facilità” (p.357). Una visione giusta ed apprezzabile, capace di creare consapevolezza, speranza e di motivare l’indignazione delle persone, ma – a mio parere – rischia di semplificare troppo il conflitto in atto tra gli interessi dei pochi (quel1% di super-ricchi, più volte richiamato nel volume, che detiene le ricchezze della metà più povera della popolazione della Terra e quel 10% che produce il 50% delle emissioni di CO2) e la stragrande maggioranza degli inquinati, degli esclusi e degli sfruttati, delle donne che subiscono per prime e più pesantemente le conseguenze delle crisi ecologiche. Se ciò accade è perché il gruppo degli “avidi egoisti” è riuscito, evidentemente, a costruire dei dispositivi di potere (culturali, prima ancora che informativi, economici e militari) con cui riesce a soggiogare e umiliare “i più”.

Smascherare e liberarci da queste gabbie oppressive ed andare alle “radici del problema” (p.389) è quindi forse il compito principale che dovremmo svolgere.

Non è quindi solo una questione di moralità dei singoli leader politici eletti e di giustizia ridistributiva (a ognuno la sua quota equa del dividendo economico, la sua porzione di beni comuni sottratti alla collettività e la sua dose di CO2), ma di superamento del “sistema” – appunto – di appropriazione, produzione e riproduzione, in modo che nessuno possa più arricchirsi a spese di altri, estrarre beni comuni per proprio conto, inquinare le sorgenti della vita. La “giustizia climatica”, quindi, a me pare raggiungibile solo in una prospettiva eco-sociale. Il più volte evocato da Thunberg “sistema” non è oggetto indefinito e anonimo, ma una struttura di potere e di comando che indirizza anche la ricerca scientifica, organizza le relazioni economiche, pianifica l’uso delle risorse naturali in funzione della massimizzazione del risultato economico, trasforma le istituzioni culturali in strumenti di propaganda, controlla e asservisce le istituzioni politiche elettive. Questi aspetti a me sembrano mancare nelle analisi di Greta Thunberg.

Inoltre, forse, dovremmo considerare che l’inerzia, la passività, il fatalismo che colpiscono anche (se non soprattutto) le fasce sociali più colpite dalle crisi ecosociali non siano dovuti solo ad una cattiva informazione, ad uno scarso “livello generale di consapevolezza sulla crisi climatica” (p.278), ma da un deficit di proposta di vita alternativa, dall’assenza di una visione politica di società plausibile e desiderabile. Spesso il salto nell’ignoto (soprattutto dopo le pessime prove storiche fornite da altri sistemi sociopolitici, quali il socialismo reale e i nazionalismi populisti) spaventa più ancora del peggioramento certo delle condizioni di vita nel prossimo futuro. ‘Io, speriamo che me la cavo’ è una filosofia di vita non certo onorevole, ma sicuramente ben presente nelle nostre società. Ci hanno abituato a pensare alla vita (e al lavoro) come ad una lotteria. Ci hanno insegnato che il “rischio” è adrenalina. Che la competizione è lo spirito del successo. Che la virilità è la forza. Che la forza è la violenza…. Un baco culturale che viene da lontano, che si chiama patriarcato, specismo, patriottismo nazionalista, razzismo. Caratteristiche che il neoliberismo e il neocolonialismo hanno portato agli eccessi, ma che sono la base stessa del modus operandi del capitalismo.

Thunberg scrive di aver chiuso il suo The Climat Book poco prima che la Russia invadesse l’Ucraina e non ha quindi potuto valutare appieno le tragiche conseguenze di questa catastrofica accelerazione della crisi planetaria (p.356). La folle corsa agli armamenti viene criticata per l’enorme contributo alle emissioni di CO2 anche in tempo di pace (si calcola che gli eserciti pesino quanto la Russia) e per il fatto che per convenzione internazionale le loro emissioni non vengono conteggiate nei budget degli stati. Come dire: possiamo fare a meno di tutto, ma non della guerra.

Ma questa dovrebbe essere una ragione in più per mettere il disarmo al primo posto anche nelle lotte per la salvaguardia del pianeta.

Tanto più ora che la guerra in Ucraina ha comportato non solo lo stop degli “ambiziosi” propositi della Ue sulla decarbonizzazione e sta devastato e inquinando permanentemente un immenso territorio e uccidendo un numero inimmaginabile di civili, donne, bambini, oltre che di soldati, per lo più coscritti. Questa guerra ci sta mostrando che la guerra è un modo di essere permanente e ubiquitario dello stesso sistema socioeconomico biocida che produce i gas climalteranti, avvelena le acque, desertifica i suoli, estingue le specie viventi. L’ecologia, oltre ad essere sociale deve essere anche pacifista.