Di Gloria Germani, a proposito di Jason Hickel, Less is more: how Degrowth will save the World, W.Heiemann, 2020 – Trad. it. Siamo ancora in tempo, come una nuova economica può salvare il pianeta, Torino, il Saggiatore, 2020.

Non c’è dubbio che il nuovo libro dell’antropologo  J. HIckel – Meno è meglio, come la Decrescita salverà il mondo,  sia molto bello, argomentato ed entusiasmante, per quanto il suo lavoro  precedente, The Divide: A brief guide to global inequality and its solution  (W.Heiemann, 2017)  sia, a mio avviso, ancora  più ricco ed innovativo.  Quest’ultimo infatti fornisce  una serie di dati  inconfutabili sulla responsabilità del processo di colonizzazione ad opera degli europei, nella creazione del mondo attuale con le sue drammatiche conseguenze sia a livello sociale che ecologico.

Venuto a conoscenza solo in tempi  recenti  del dibattito che va sotto il nome di “Decrescita”, Hickel  costruisce un testo denso ed articolato in cui mette a fuoco il vero responsabile che ci ha portato attraverso  gli ultimi tre secoli alla situazione attuale, cioè l’imperativo della crescita che è la legge intrinseca  dell’economia moderna e del capitalismo. Possibili colpevoli  -troppo spesso  evocati – come le corporations, la finanziarizzazione, il neoliberismo globalista, la disonestà, sono accantonati per mettere a fuoco  quella che è l’essenza stessa dell’economia moderna – sulla scia della teorizzazione soprattutto di Serge Latouche –  la crescita. Secondo l’antropologo, l’idea di decrescita oggi è essenziale perché ci scuote dallo stordimento in cui siamo finiti, perché il culto della crescita economica è arrivato a rimpiazzare ogni forma di pensiero, non ci fa più cercare risposte alle domande su qual è il fine della vita o su dove stiamo andando. Per Hickel  “La decrescita è un idea di cui oggi non si può fare a meno” (p.261) e suscita addirittura sdegno  il fatto che  l’editore italiano abbia invece preferito nascondere il termine nel titolo del libro.

L’autore arriva giustamente a chiarire un altro punto estremamente importante: il capitalismo e la sua legge sono in realtà solo l’ effetto di una atteggiamento ancora più profondo che riguarda l’universo mentale.  “Il vero problema si trova ad un livello molto più profondo, nel regno dell’ontologia: nella nostra teoria  dell’essere” – scrive Hickel ( p. 41) . E’ precisamente perché  è radicato in  livelli  culturali  molto stratificati,  che è così difficile cambiare l’attuale orientamento economico anche quando i suoi effetti nefasti sono così eclatanti: collasso climatico, sesta estinzione di massa, plastificazione degli oceani, desertificazione dei suoli.  Come A.Porciello nel suo recenti Filosofia dell’Ambiente ( 2022), anche HIckel sostiene: “Non è soltanto la nostra economia a dover cambiare. Dobbiamo cambiare la nostra visione del mondo e il nostro posto del mondo” ( p.43).

L’atteggiamento  di fondo che  dobbiamo abbandonare per invertire la rotta, riguarda il rapporto tra uomo e natura o, in altre parole, la separazione con cui l’uomo moderno ha percepito se stesso distaccato dalla natura: il dualismo (p.73 sgg).  Hickel  giustamente fa risalire questa caratteristica a Cartesio e Francis Bacon  (con cui si inaugura la filosofia dualistica per cui la natura è un oggetto inerte e meccanico) e a Thomas Hobbes e a John Locke che trasportarono questa visione in campo politico e sociologico.  A differenza di tante società indigene conosciute dagli antropologi, la natura smise di essere una madre amorevole e nutrice per diventare mera materia da dominare e modificare.

Il brillante antropologo ha senz’altro il merito di aver messo a fuoco che  la legge della crescita nasce dalla separazione dualistica avvenuta nel pensiero occidentale a cavallo tra Seicento e Ottocento. “La filosofia dualistica è responsabile della nostra crisi ecologica”- afferma anche  Hickel (p.41). Tuttavia egli evita accuratamente di toccare i temi scabrosi della scienza o della tecnologica anche se è fuori dubbio che hanno avuto  origine in questi secoli e nella medesima compagine culturale. A differenza dei poderosi studi di Fridjof Capra, soprattutto in  Il punto di svolta del  1982, Hickel non parla del  dualismo cartesiano-newtoniano come dell’origine fondamentale della scienza occidentale – materialistica, meccanicistica e riduzionistica – che proprio perché concepita in tal modo, ha reso possibile la tecnologia e i suoi sconvolgenti sviluppi. Anzi, si tiene cautamente al  margine della  spinosa questione, intitolando un capitolo “Cartesio rItwittato”, come se si trattasse di un atteggiamento deviato isolato, e stupidamente  ripetuto.

Non possiamo dimenticare che Newton è stato il primo a parlare di tempo assoluto come di un entità che scorre indipendentemente da ogni attività umana ed è difficile non collegare le sue teorie alla fortuna che ha avuto, da allora in poi, l’idea di crescita e di  sviluppo che scorrono imperturbabili verso un futuro di Progresso . Non possiamo neppure scordare che i facili successi a breve termine della scienza e della  tecnologia occidentali sono stati il potentissimo motore prima della colonizzazione e oggi della globalizzazione ed è quest’ultima che ha finito per schiacciare le altre culture che si basavano sulla verità  che “tutto  è collegato”( come Hickel intitola l’ultimo capitolo)

Le popolazioni indigene che  l’antropologo ricorda (p.230 sgg.) -i cewong, achuar, debamuni, kanak – si nutrivano degli insegnamenti degli antenati che non conoscevano il dualismo tra uomo-natura al pari della odierna fisica quantistica. Una visione più interculturale della storia delle idee, ci insegna però che anche  gli indù, i buddisti, i giainisti, i confuciani ed altre popolazioni avevano costruito civiltà millenarie proprio sul non dualismo, sul fatto che tutto è interrelato ed interconnesso e in base a questa visione del mondo avevano dato vita a maniere di concepire l’uomo, la società, l’ecologia, di fare arte, architettura,  e soprattutto di concepire l’economia, in maniera radicalmente diversa .

Hickel evita di entrare a fondo su questi argomenti e invece attribuisce in maniera semplificatrice la nascita del dualismo uomo-natura, ovvero dell’idea di dominio, al “Periodo Assiale” cioè a quella fase tra l’800 e il  200 a.C.  in cui  -secondo il filosofo e psichiatra K.Jaspers  – in tutto il mondo si formarono le religioni  considerate  “trascendenti “(p. 66 sgg.).  Vengono così superficialmente accumunate esperienze  completamente diverse come l’induismo in India  o il confucianesimo in Cina con la  tradizione giudaico –cristiana con le sue caratteristiche prettamente antropocentriche, così evidenti  per esempio nella Genesi.  Anche l’inclusione di Platone nella supposta corrente che ha conferito all’uomo il dominio sulla natura, tradisce una falsa interpretazione del cosiddetto “dualismo platonico”, atta in fondo a non intaccare le certezze del “superiore pensiero  scientifico” che, a partire dal suo araldo Aristotele, ha dato forma al pensiero occidentale.

Hickel sottolinea giustamente che non sarà la tecnologia a salvarci e ripetutamente richiama il fatto che” i progressi della ricerca scientifica hanno dimostrato che non solo che Cartesio si sbagliava, ma anche che, sotto alcuni aspetti  fondamentali, il pensiero animista era più in sintonia con il modo in cui la vita funziona” (p. 240). D’altro canto, la  fisica quantistica ha del tutto sconfessato gli assiomi su cui è stato costruita l’industrializzazione: tempo e spazio assoluti, materia inerte, oggettività, legge univoca di causa ed effetto.  Nonostante questo, egli ammette che ancor aggi nelle società occidentali la maggior parte della persone è convinta che gli esseri umani siano fondamentalmente distinti dal resto della natura (p. 242).

E’ indiscutibile che il libro offra tantissimi spunti interessanti e forieri di una nuova speranza per cambiare radicalmente il nostro atteggiamento verso l’economia che sta  distruggendo il pianeta.  Tuttavia un analisi più spregiudicata del nesso tra l’errore del dualismo e l’epopea della scienza moderna con le sue sorelle – l’industrializzazione e lo sviluppo tecnologico – sarebbe più incisiva per tracciare nuove strade – piuttosto  che limitarsi a constatare che “ quattrocento anni dopo continuiamo a ritwittare Cartesio” (p. 242).

Infatti non si tratta tanto di  cambiare l’economia (secondo i 5  brillanti punti indicati da Hickel, tra cui proibire la pubblicità) ma occorre addirittura uscire dall’economia come sta indicando il padre nobile della decrescita: Serge Latouche. Se non critichiamo alla radice l’esistenza di una “Scienza  Economica” (fondata da A.Smith) insieme alla specializzazione e al riduzionismo delle Scienze moderne, continueremo a “verniciare di un verde ormai sbiadito” lo squallore della civiltà industriale” (G.Dalla Casa).

E’ necessario che rimettiamo la prospettiva economia (eco-nomos) dove è sempre stata – come dicevano Karl Polanyi  e Tiziano Terzani – incastrata nell’intreccio di ecologia, etica,  rapporti umani e dimensione affettiva e relazionale con altri essere senzienti, ma anche con tutto l’ecosistema di cui facciamo parte.

Forse, pian piano, sta passando il concetto che la crescita infinita è impossibile in un mondo finito, ma” il progresso della scienza e della tecnologia restano ancora idoli intoccabili. Lo scientismo pandemico ne è una conferma”( L.Madiai). Dobbiamo davvero fare un passo in più.

p.s. Jason Hickel è stato anche uno degli ospiti dell’incontro di Venezia 2022, qui l’intervista di Chiara Spadaro