Si è da poco conclusa l’ennesima inconcludente COP (numero 28). Tra i tanti articoli pubblicati in questi giorni condividiamo quello del nostro socio Marino Ruzzenenti, ma vi segnaliamo anche Cop 28, grottesca o tragica? di Guido Viale, lo speciale di economiacircolare.com e l’intervista a Virginia Careri (attivista della ONG Welthungerhilfe) La decrescita è una strada che nessuno vuol percorrere

 

La Cop 28 dei paradossi di Marino Ruzzenenti (pubblicato anche su Missione Oggi)

La parola magica, dopo una lunga notte di trattative, è finalmente uscita dal cappello: “transizione”.

Così è avvenuto il miracolo di mettere d’accordo gli opposti: chi voleva si scrivesse “uscita dai fossili” e chi voleva invece “avanti tutta coi fossili”, in quest’ultimo caso tutti i petrostati, a partire da quello che, ospitando la Conferenza, ne ha approfittato per incrementare i propri affari con l’olio nero.  Una sceneggiata che dovremo attenderci anche per la prossima Cop 29 prevista nell’Azerbaigian, a Baku, il Texas euroasiatico, in cui nell’Ottocento cominciò in questa parte del mondo l’era del petrolio con i primi pozzi. Dunque il fossile continuerà a pesare. Del resto si è mai sentito qualcuno consigliare ad un etilista che vuole disintossicarsi dall’alcol di frequentare assiduamente le osterie?

Paradossalmente l’arroganza di Sultan Al-Jaber, presidente della Conferenza nonché numero uno dell’azienda petrolifera di Stato degli Emirati, può essere stata una doccia fredda salutare: “Dire addio al petrolio vorrebbe dire tornare al tempo della caverne”, aveva dichiarato. Sgomberati i fumogeni che per trent’anni hanno annebbiato il dibattito ambiguo avviato a Rio nel ’92 (“sviluppo sostenibile”, “crisi climatica”, ecc.), il tema dei fossili, una sorta di tabù, finalmente non era più aggirabile: così quella parola, sacralizzata al punto da non poter essere pronunciata, è stata per la prima volta scritta nel documento finale. E, nonostante le troppe ambiguità e contraddizioni, è questo forse la principale novità di questa Cop. 

Sultan Al-Jaber, così, ha squarciato il velo dell’ipocrisia, ha sbattuto in faccia al mondo la “scomoda verità”, la dipendenza tossica dai fossili del meraviglioso sviluppo conseguito nell’ultimo secolo e la straordinaria difficoltà di un percorso effettivo di disintossicazione da questa mirabile dipendenza quando non si voglia rinunciare a nulla, non solo all’indispensabile per una vita dignitosa, ma neppure al superfluo, allo spreco, all’eccesso bulimico in cui siamo immersi. 

Perché la giostra fantasmagorica su cui ci troviamo, in particolare noi occidentali, gira a tutta birra grazie ai fossili e a quel principio che presiede al suo funzionamento, il principio della competitività, della “mano invisibile” del mercato, del produrre sempre di più per consumare di più e realizzare sempre più ricchezza, l’eterno mito della “crescita”. 

Una doccia fredda che può far bene anche ai movimenti ambientalisti, eccitati perché negli ultimi anni i media internazionali avevano coccolato Greta Thunberg e i ragazzi dei venerdì per il futuro. 

Si pensava che, riciclando meglio i rifiuti, coibentando le abitazioni e dotandole di pannelli solari, diffondendo la propulsione elettrica nelle auto, infine piantumando le periferie delle nostre città, la “transizione” fosse a portata di mano.

Ma quella nostra magica giostra funziona grazie ai quindici milioni di aerei che solcano ogni anno i cieli, e le oltre 5.000 meganavi portacontainer capaci di portare ciascuna oltre 20.000 container standard.  E si poggia sui quattro pilastri della modernità: acciaio, cemento, plastiche e fibre sintetiche, sintesi dell’ammoniaca per i fertilizzanti. Tutte attività fondamentali in continua crescita e che funzionano solo con i fossili, sia come fonte energetica che come materia prima, difficilmente sostituibili con le tecnologie oggi disponibili.  

E qui sta il valore delle Cop: costringere tutte le nazioni del mondo a confrontarsi periodicamente con questi enormi problemi e a discuterne.   

Ultima considerazione: ma Greta che fine ha fatto?  Un’assenza nei media che avrebbe dovuto far rumore in questa occasione, più delle parole di Sultan Al-Jaber. 

Forse che il sistema massmediatico globale l’abbia ignorata perché ha puntato il dito su nervi scoperti dell’Occidente, sulle responsabilità del capitalismo nella crisi ambientale e del vecchio imperialismo Usa nel sostegno incondizionato all’aggressione distruttiva di Gaza da parte del governo israeliano?