Nel nostro ultimo libro pubblicato in inglese “Decrescita: Un Vocabolario per una Nuova Era” (“Degrowth, a vocabulary for a new era“, ancora non edito in Italia ndr), non solo sosteniamo che la crescita economica stia diventando strutturalmente più difficile da perseguire nelle economie avanzate, ma anche che essa sia socialmente ed ecologicamente insostenibile. Il clima globale, il welfare, i vincoli sociali e più in generale tutti quegli elementi e valori che per varie epoche hanno resistito, sono ora sacrificati in nome di una nuova divinità rappresentata dalla crescita economica.
Così come si farebbe con un paziente in stato terminale, viene richiesto alla gente di soffrire senza fine, in nome di qualche decimo di punto percentuale di Pil in più per il profitto dei sempre meno (il ben noto 1 per cento).
In teoria la crescita sarebbe necessaria per ripagare i debiti, creare nuovi posti di lavoro o aumentare i redditi dei più poveri. In pratica abbiamo già avuto periodi di crescita sostenuta ma siamo ancora indebitati, i nostri giovani sono disoccupati e la povertà è più alta che mai. Ci siamo indebitati per crescere e ora siamo obbligati a crescere per sdebitarci.
La decrescita è prima di tutto un appello alla de-colonizzazione dell’immaginario sociale dall’idea che ci sia un solo futuro possibile e che questo debba essere basato sulla crescita. La decrescita è l’ipotesi che sia possibile vivere meglio con una vita più semplice ed in comune. È un progetto di una società alternativa che nasce a partire dalla redistribuzione delle risorse, che si fonda sulla sostenibilità della vita e che pratica la democrazia in modo sostanziale. La decrescita non è quindi sinonimo di recessione, ma è l’idea che si possa avere prosperità sociale senza crescita economica. Gli approcci approssimativi e disinformati del primo ministro Renzi (in marzo, durante la cerimonia di inaugurazione dell’anno accademico 2015 della Scuola Superiore di Polizia, Matteo Renzi ha detto che l’Italia è uscita dal tunnel della crisi e “se qualcuno parla di decrescita, bisognerebbe farlo vedere da gente brava”, ndr) e di Luca Simonetti (autore di Contro la decrescita. Perché rallentare non è la soluzione, Longanesi, ndr) cadono infatti nella mistificazione.
In altre parole: possiamo ottenere un lavoro soddisfacente senza la necessità di una crescita infinita; possiamo sostenere un welfare che funzioni senza che l’economia cresca annualmente e possiamo ridurre le disuguaglianze sociali ed eliminare la povertà senza il bisogno di accumulare ogni anno più denaro.
La decrescita mette in discussione non solo gli esiti, ma lo spirito stesso del capitalismo. Il capitalismo sembra non conoscere limiti: conosce soltanto come espandersi, come creare distruggendo. Il capitalismo non conosce stabilità. Può vendere qualsiasi cosa, ma non può vendere meno.
La decrescita offre una nuova narrativa per una sinistra radicale che intenda andare oltre il capitalismo, senza necessariamente ripercorrere la via autoritaria e produttivista del socialismo reale (o del ‘capitalismo di stato’ come le definirebbe qualcuno).
Una nuova sinistra, nuova nelle idee e giovane data l’età dei suoi aderenti, si sta formando in Europa, dalla Spagna alla Grecia passando per le esperienze slovene e croate. Questa nuova sinistra sarà anche verde e in grado di proporre un modello di economia cooperativa basata sulle idee della decrescita? Oppure – come nel caso di quella in America Latina – finirà per riprodurre la logica espansiva del capitalismo, sostituendo semplicemente con aziende nazionali le multinazionali e lasciando poco più che le briciole al popolino?
Molte persone vicine alle idee e alle critiche sollevate nel nostro libro, ci dicono che sebbene si tratti di critiche ragionevoli, le proposte che ne seguono sono vaghe e di difficile applicazione. Sembra più facile immaginare la fine del mondo, o talvolta quella del capitalismo piuttosto che immaginare la fine della crescita economica.
I partiti politici più radicali non hanno neanche il coraggio di pronunciare la D di questa parola, o quanto meno di mettere in questione la desiderabilità della crescita. Per rompere l’incantesimo della crescita economica, noi di Research & Degrowth di Barcellona, abbiamo deciso di estrapolare alcune proposte politiche a partire dalle stesse teorie della decrescita. Queste politiche sono discusse più dettagliatamente nel nostro ultimo libro.

Di seguito presentiamo 10 proposte politiche pensate e scritte per il contesto spagnolo (più precisamente catalano). Tuttavia, ripensate alla luce delle specificità nazionali, sono valide anche altrove. Le idee presenti nel testo, infatti, sono rilevanti per le sinistre radicali ed i partiti ecologisti di tutta Europa.
1) Audit sul debito pubblico: la crescita economica è oggi necessaria per ripagare i creditori che in passato hanno speculato sulle difficoltà economiche di attività economiche e privati cittadini costretti a partecipare alla morsa di una crescita fittizia pur di sopravvivere. Il debito deve per questo essere analizzato e ristrutturato per cancellare quella parte cresciuta a dismisura dalle spinte speculative. Il taglio deve avvenire con l’avallo di una consultazione popolare, che metta in pratica una nuova e reale cultura democratica. Tale processo non deve avvenire a discapito dei risparmiatori e di chi guadagna una modesta pensione, sia in Spagna che altrove, mentre il debito di chi possiede un alto salario e dei patrimoni ingenti non può essere assolto. Sono gli speculatori che devono farsi carico delle perdite. Una volta ridotto il debito, la posta di un tetto massimo sul CO2 e sull’estrazione di risorse (vedi il punto 9) faranno in modo che non si riproducano le condizioni per una nuova crescita ed un aumento dei consumi.
2) Condivisione del lavoro (work-sharing): ridurre la settimana lavorativa ad almeno 32 ore condividendo le mansioni tra più lavoratori e sviluppare programmi e politiche di supporto per le aziende e le organizzazioni che vogliano incentivare il work-sharing. La riduzione deve avvenire a parità di reddito, eccetto per il 10 per cento dei redditi più alti. Questa soluzione, unitamente ai meccanismi di tassazione ambientale proposti al punto 4, dovrebbe impedire che l’aumento del tempo libero si tramuti in un aumento del tempo dedicato ai consumi.
3) Reddito minimo e reddito massimo: stabilire un reddito minimo incondizionato per tutti i cittadini, tra le 400 e le 600 euro mensili, libero da requisiti di accesso specifici. Un recente studio suggerisce come ciò sia praticabile in Spagna, senza il bisogno di aumentare il prelievo fiscale. Tale politica può essere sostenibile nel lungo tempo se finanziata attraverso il maggior gettito fiscale proveniente dall’istituzione di un reddito massimo. Tale reddito – sia esso frutto di lavoro o rendita – non dovrebbe essere maggiore di 30 volte il reddito minimo di cittadinanza (tra i 12 e i 18 mila euro mensili).
4) Riforma del sistema fiscale in senso ambientale: mettere a punto un sistema di contabilità che permetta di trasformare il sistema fiscale. La fiscalità non dovrebbe tassare il lavoro ma l’uso delle risorse e dell’energia. Si darebbe vita in questo modo ad un vera e propria fiscalità ambientale. Si potrebbe ridurre la pressione fiscale sui più poveri attraverso l’introduzione di una carbon tax e stabilendo un prelievo fiscale del 90 per cento sui redditi più alti (sorprenderà sapere che un’aliquota di questo tipo era già comune negli Usa durante gli anni ’50). Le alte tasse sui redditi e capitali servirebbero a scoraggiare il consumo di beni posizionali (il lusso e tutti i beni che definiscono lo status socio-economico) e a disincentivare l’extra risparmio alla base della speculazione finanziaria. Un disincentivo ulteriore all’accumulazione patrimoniale potrebbe venire dall’imposizione di una tassa di successione e da un incremento della tassazione sulle grandi proprietà o la seconda e terza casa.
5) Stop ai sussidi e agli investimenti in attività altamente inquinanti e sostegno alle produzioni verdi: azzerare gli investimenti e gli incentivi pubblici al trasporto privato e alle sue infrastrutture, alla tecnologia militare, alle fonti di energia fossili e alle attività estrattive. Le risorse liberate permetterebbero maggiori investimenti nel miglioramento degli spazi collettivi rurali ed urbani (quali piazze o aree pedonali), nel trasporto pubblico e nei progetti di bike-sharing ed aiuterebbero a costruire un sistema energetico leggero, decentralizzato e più vicino al controllo dei cittadini basato sulle energie rinnovabili (del tutto opposto al gigantismo energetico promosso e controllato dalle grandi corporations pubbliche e private).
6) Sostegno alle iniziative di ‘società solidale’: sostenere legislativamente e mediante sussidi o esenzione fiscale l’economia co-operativa non-profit che include tutte quelle attività quali i Gruppi d’acquisto solidale, le reti di assistenza, le attività cooperative di condivisione degli spazi domestici, del credito, dell’insegnamento e dell’arte. Questo andrebbe accompagnato da una progressiva de-commercializzazione degli spazi e delle attività riguardanti l’assistenza e la creatività, sostenendo quindi le reti di mutuo supporto, le organizzazioni e gli spazi per la cura e l’assistenza dei più piccoli e degli anziani ed i laboratori sociali (come spazi di creatività) che stanno sempre più prendendo piede nelle nostre realtà.
7) Ottimizzare l’uso del patrimonio abitativo: impedire la costruzione di nuovi edifici, riabilitando e rendendo energeticamente efficiente il patrimonio esistente ed incentivando la piena occupazione delle case. Questi obiettivi potrebbero essere raggiunti imponendo tasse elevate sul patrimonio inutilizzato e sulle seconde case, dando priorità all’edilizia sociale e – qualora questo non fosse sufficiente – procedendo all’espropriazione a fini pubblici delle abitazioni vuote nelle mani degli investitori privati.
8) Ridurre la pubblicità: stabilire criteri restrittivi per la pubblicità negli spazi pubblici, in linea con l’esperienza francese di Grenoble. Dare priorità ai fini informativi piuttosto che a quelli commerciali, dando vita ad un comitato di controllo con funzioni di supervisione della quantità e della qualità della pubblicità consentita nei mass media, ricorrendo anche alla tassazione quando necessario rispetto agli obiettivi sopra esposti.
9) Fissare dei limiti ambientali: porre dei limiti alla quantità di anidride carbonica emessa a livello nazionale e alla quantità di risorse materiali utilizzate, sia quelle prodotte sia quelle importate dal Sud del mondo. Questi limiti possono essere quantificati in CO2 e risorse materiali, ma anche in termini di impronta ecologica (quanta acqua o terra è stata utilizzata per la coltivazione) e possono essere utilizzati in altri ambiti di ‘pressione ambientale’ quali l’approvvigionamento idrico, la quantità di superficie edificabile e la quantità di licenze delle imprese turistiche in zone già fortemente saturate.
10) Abolire l’uso del Pil come indicatore di sviluppo economico: evitare di utilizzare il Pil e implementare altri indicatori di prosperità. La contabilità fiscale e monetaria potrebbe certamente essere calcolata ed utilizzata in accordo con questo indicatore, ma le politiche economiche non dovrebbero essere espresse in termini di crescita del Pil. A tal fine è necessario avviare un dibattito aperto per definire in maniera condivisa cosa sia realmente il benessere.
Le proposte sono complementari le une e le altre e dovrebbero essere applicate di concerto. Per esempio, stabilire unicamente dei limiti ambientali potrebbe ridurre la crescita e creare disoccupazione se non si implementa la riduzione delle ore di lavoro e la condivisione delle mansioni; inoltre se unitamente a queste due politiche si stabilisce il reddito minimo e massimo si sgancerebbe dalla crescita economica tanto l’occupazione quanto il sistema previdenziale e la sicurezza sociale.
La riallocazione degli investimenti dalle attività inquinanti a quelle pulite e la riforma del sistema fiscale in senso ambientale permetterebbero l’affermarsi di un’economia sostenibile. Tale transizione sarebbe un successo e non un fallimento in un’economia basata su indicatori di prosperità alternativi, piuttosto che sul Pil.

Infine i cambiamenti introdotti nel sistema fiscale e il controllo della pubblicità sgraverebbero la società dall’inutile rincorsa all’acquisto di beni posizionali (ovvero di status nella scala sociale) e dal senso di frustrazione derivante dalla mancanza di crescita economica. L’investimento in nuovi beni comuni ed in infrastrutture aperte e condivise contribuirebbe al contrario all’affermazione di una nuova stagione di prosperità, senza crescita.
Non ci aspettiamo che la sinistra faccia della ‘decrescita’ la sua bandiera. Ci rendiamo conto della difficoltà derivante dal mettere improvvisamente in discussione un senso comune ben radicato. Ci aspettiamo, invece, che i partiti della sinistra radicale e democratica intraprendano un cammino nella direzione disegnata dalle politiche proposte, indipendentemente dal loro effetto sulla crescita economica. Ci aspettiamo che i veri partiti di sinistra evitino di avere come obiettivo ancora una volta il rilancio della crescita economica. E ci aspettiamo anche che siano preparati ed abbiano sviluppato un bagaglio di idee praticabili nel caso in cui l’economia non riesca crescere. Questa è una chiara alternativa rispetto al passo indietro verso un’austerità di ‘sinistra’ messa in campo da Hollande e ad una politica pro mercato alla Renzi.
È ragionevole avere tale aspettativa nell’attuale congiuntura politica dell’Europa del Sud? Sì e no.
La bozza di politiche economiche pubblicata da Podemos (il cosiddetto partito degli “indignados”) in novembre contiene molti elementi che concordano con l’agenda di cui sopra. Il documento infatti non pone la crescita come obiettivo strategico ed omette qualsiasi riferimento al Pil. Propone di ridurre l’orario di lavoro settimanale a 35 ore, di stabilire un reddito minimo garantito ai disoccupati, di rinegoziare il debito pubblico e quello delle famiglie e di riallocare gli investimenti in settori quali l’assistenza, l’educazione e l’economia verde, ponendo come obiettivo principale la soddisfazione delle necessità fondamentali delle persone attraverso un ‘consumo ecologicamente sostenibile’.
Questa politica potrebbe anche spingersi oltre, spostando le tasse dal lavoro al consumo di risorse materiali, stabilendo dei limiti ambientali, controllando la pubblicità, allargando l’accesso al reddito minimo incondizionato e riformando il welfare mediante il rafforzamento dell’economia solidale, che sta fiorendo in Spagna e si sta dimostrando capace di migliorare e rendere accessibili i servizi per la salute, l’assistenza e l’educazione.
Al contrario, in Grecia è al momento molto più difficile ignorare la necessità di avere una crescita economica data l’enorme voragine del debito e la necessità di liberarsi delle politiche di austerità e dagli aggiustamenti strutturali imposti dalla Troika rivelatisi socialmente disastrosi. Syriza osteggia giustamente le politiche di austerità proponendo una rinegoziazione del debito pubblico. Sfortunatamente l’obiettivo dell’eliminazione del debito è visto ancora in termini di rilancio della crescita economica, anche in virtù dell’adozione da parte del partito della cosiddetta growth-clause (letteralmente una clausola di crescita) proposta da Joseph Stiglitz e secondo cui la parte di debito non rinegoziata verrà finanziata grazie al riavvio futuro dell’economia.
Syriza propone un nuovo New Deal Europeo e sposa la causa degli investimenti pubblici in grado di far ripartire l’economia greca; la differenza con Podemos è che non parla di un New Deal ‘verde’ o di una riallocazione degli investimenti dalle industrie convenzionali verso quelle pulite e dai settori ad uso intensivo di risorse verso l’assistenza e l’educazione (sul ruolo di Syriza leggi anche l’ottimo articolo I movimenti sociali e il governo di Syriza di Theodoros Karyotis, ndr).
All’interno dell’attuale quadro di potere europeo, della dittatura dei mercati e dell’ossessione della Germania per l’austerità, persino la proposta Stiglitziana di Syriza è considerata ‘radicale’ e con scarse possibilità di essere realizzata se non a costo di drammatici eventi socio-politici in Grecia e di uno sconvolgimento politico dell’Unione europea. Anche se Syriza riuscisse un giorno a mettere in atto la sua strategia, rimane aperta la questione di cosa farebbe nel caso in cui la prospettata crescita non dovesse arrivare nonostante la ristrutturazione dei debiti.
Farebbe un passo indietro verso un’austerità di sinistra un po’ come fecero i socialisti di Hollande quando si ritrovarono di fronte allo stesso problema? Inseguirebbe ancora più intensamente l’attuale modello di sviluppo estrattivista che sfrutta l’ambiente del paese per ricavarne risorse, esportazioni e turismo nonostante ciò non rientri nelle aspettative della sua base politica da sempre in prima linea nei conflitti ambientali e in opposizione al modello estrattivista? Oppure si fermerebbe ad ascoltare i suoi giovani, protagonisti nel rilancio dell’economia solidale greca, cercando di decifrare e pensare come rendere universali questi esperimenti locali anticipatori di un modello nuovo per l’economia nazionale nel suo insieme? Non è un’impresa semplice, ma nessuno ha mai pensato che il compito di una sinistra radicale fosse percorrere il cammino più facile.
Tradotto da Fulvia Ferri e Alessandro Salvati.

Tratto da: Comune-info

 

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