Del Gruppo Comunicazione – Associazione per la decrescita

Federico Rampini, inviato del Corriere della Sera, saggista e noto opinionista televisivo, ha sferrato un duro attacco ai catastrofisti del clima e in particolare contro i sostenitori dell’utopia crudele della decrescita (Il Corriere della Sera, 10 gennaio 2023) con una serie di argomenti senza fondamento.

Rampini ha scritto che la ricostituzione dello strato di ozono (la lenta chiusura dei “buchi” che si sono aperti sopra le calotte polari) rilevata recentemente dall’Organizzazione Meteorologica Mondiale è una buona notizia che dovrebbe fare riflettere anche per quanto riguarda altre problematiche ambientali, quali le emissioni di gas climalteranti (Co2 ed equivalenti) che continuano invece ad aumentare. Giusto. Ricordiamo però alcune questioni.

1) Gli allarmi degli scienziati negli anni ‘80 erano del tutto fondati: il passaggio in atmosfera delle radiazioni solari ultraviolette non filtrate avrebbe provocato conseguenze pericolosissime anche sulla salute umana. Non si trattava quindi – come invece  scrive Rampini – di una “profezia di sventura nel lungo elenco di minacce/scenari/previsioni che si sono rivelati infondati”, ma di un pericolo reale che è stato sventato grazie ad un intervento drastico, seppure tardivo, con la proibizione della produzione, della commercializzazione e dell’utilizzo dei gas clorofluorocarburi (CFC) attraverso prescrizioni vincolanti sancite dalla Convenzione internazionale di Vienna del 1985 e dal Protocollo di Montreal del 1987 (da notare, poi, che gli HFCs con cui sono stati sostituiti i CFC sono potentissimi gas serra che stanno crescendo a livelli allarmanti).  Quindi, i soli che dovrebbero “fare autocritica per quelle [catastrofi] che non si sono realizzate” (Rampini) sono i negazionisti che ieri come oggi sottovalutano la gravità dei problemi ambientali, non certo gli scienziati e gli attivisti ambientali che richiamano l’attenzione dei decisori politici.

2) La domanda giusta che ci dovremmo porre, quindi, è come mai i governi e la comunità internazionale sono riusciti ad intervenire nel caso dei Cfc e non in altri altrettanto gravi, come i gas climalteranti? Una risposta autorevole ce la fornisce Dennis Meadows, uno degli autori di Limits to Growth, in una intervista dello scorso anno, ora tradotta e pubblicata sull’ultimo numero della rivista Altronovecento: “Il problema dell’ozono aveva caratteristiche molto particolari che lo rendono diverso dal riscaldamento climatico. Era possibile infatti immaginare l’abbandono dei clorofluorocarburi, distruttori dell’ozono, utilizzati da frigoriferi e climatizzatori, senza dover abbandonare la refrigerazione. Per quanto riguarda il cambiamento climatico, non si può immaginare di abbandonare i combustibili fossili (…). La decisione di agire da parte del presidente degli Stati Uniti fu un fattore chiave nel dibattito dell’epoca sui Cfc. E una delle ragioni che lo spinsero era che una grande azienda americana  prevedeva che avrebbero potuto fare molti profitti producendo sostituti”.  Se sono le  convenienze del Mercato a dettare i tempi per la “transizione energetica” (Zero Net Emissions) dovremmo quindi attendere che il business delle rinnovabili superi in rendimenti economici quello dei combustibili fossili. Ma, temiamo, che potrebbe essere troppo tardi per una buona parte della popolazione della Terra, per la fauna selvatica, per la sopravvivenza della biodiversità.

3) Terzo aspetto. Dal successo della lotta contro i Cfc Federico Rampini trae la conclusione che “possiamo progettare un futuro di riduzione dell’inquinamento senza che questo comporti l’utopia crudele della decrescita o addirittura dell’austerity a oltranza (utopia crudele soprattutto verso i meno abbienti)”. Questa visione – a nostro parere – capovolge la realtà: non sono gli ecologisti (definiti anche “invasati” “predicatori dell’apocalisse” e altri epiteti) a volere un impoverimento delle popolazioni (a partire da quelle più fragili ed esposte ai cambiamenti climatici, agli inquinamenti, alla desertificazione, ecc.), che è invece la conseguenza – questa sì ingiusta e crudele – del business us usual, del modello dominante di crescita economica incrementale, affidata alla logica di mercato, calcolata solo col metro del profitto. Ce ne dispiace, perché ricordavamo un Federico Rampini diverso che scriveva un libro importante, Slow Economy (Mondadori, 2009), in cui affermava: “Cittadini e governi, sotto la dittatura del Prodotto interno lordo abbiamo concentrato energie e intelligenza per rincorrere obiettivi non essenziali, o persino distruttivi” (p.173). Ecco, siamo d’accordo con il primo Rampini.  Riteniamo che sia possibile – oltre che necessario – costruire una società che non affida il benessere dei suoi abitanti alla distruzione (prelievi di materie e rilasci di inquinamenti) delle basi biofisiche della vita sul pianeta. Ciò non significa accettare inerti la decadenza, la disoccupazione e l’impoverimento, ma, al contrario, riscoprire la ricchezza delle risorse naturali riproducibili, rifinalizzare le tecnologie, riscoprire comportamenti e stili di vita sostenibili. Noi la chiamiamo società della decrescita per rendere bene l’idea che si tratta di una società opposta a quella dominata dal “feticcio del Pil” (Rampini, p.173).

 

Articolo inviato anche a @FedericoRampini, lettere@corriere.it e letterealdocazzullo@corriere.it

P.S. per quanto riguarda la specifica questione del buco dell’ozono, rimandiamo a questa ottima analisi di Giuseppe d’Ippolito su www.climateaid.it

 

Qui di seguito il testo dell’articolo di Federico Rampini del 10 gennaio 2023

I catastrofisti del clima e i piani per usare meno carbone

Gli Usa hanno ripreso ad aumentare le loro emissioni, ma a un ritmo inferiore rispetto alla crescita del Pil. Per il Sud del mondo servono soluzioni pragmatiche, che tengano conto dei limiti delle energie alternative.

L’America ha ripreso ad aumentare le sue emissioni carboniche l’anno scorso, però in misura molto contenuta: perché ha continuato a sostituire centrali elettriche a carbone con centrali elettriche alimentate dal gas naturale (meno inquinante) o dalle fonti rinnovabili. C’è chi invece del carbone non potrà fare a meno, ancora per molto tempo: sono i paesi emergenti, soprattutto i più poveri tra loro, che hanno bisogno di crescere subito e in fretta, cosa che con le tecnologie attuali si può fare solo ricorrendo almeno in parte alle energie fossili.

Possiamo suddividere le notizie in buone e cattive, secondo il nostro metro di giudizio e la nostra gerarchia di valori: l’importante è tenere gli occhi aperti e analizzare la realtà per quel che è, senza paraocchi né pregiudizi. Il primo dato è +1,3%. Secondo le stime preliminari sull’anno 2022, questo è il tasso di aumento delle emissioni carboniche negli Stati Uniti. Dunque hanno ripreso a salire (cattiva notizia per il cambiamento climatico), dopo un paio d’anni di calo dovuto alle restrizioni della pandemia. Però il livello complessivo delle emissioni di CO2 americane resta inferiore al periodo pre-pandemia (buona notizia). Inoltre, e questo è perfino più importante, questa velocità di aumento dell’anidride carbonica rilasciata nell’atmosfera è sensibilmente inferiore alla velocità di crescita dell’economia Usa nel suo insieme: e questa è davvero una buona notizia. Significa infatti che stiamo spezzando l’antico automatismo per cui più crescita significava inesorabilmente più CO2 nell’atmosfera.

Il venire meno di un rapporto diretto e proporzionale è spiegato da una parte dal fatto che la crescita sta diventando meno energivora (grazie alle tecnologie che ci consentono di risparmiare consumi); d’altro lato dalla conversione del parco centrali elettriche verso fonti che emettono meno CO2 (gas) oppure non ne emettono affatto (nucleare, idroelettrico, sole, vento).

La notizia positiva ha inoltre un risvolto politico e sociale prezioso: significa che possiamo progettare un futuro di riduzione dell’inquinamento senza che questo comporti l’utopia crudele della decrescita o addirittura dell’austerity a oltranza (utopia crudele soprattutto verso i meno abbienti). S’inserisce in questa messe di notizie positive anche il fatto – accertato dalla comunità scientifica sotto l’egida Onu – che il “buco dell’ozono” si sta chiudendo e un giorno scomparirà. Per chi ha la mia età: quando noi eravamo giovani l’Apocalisse ci veniva promessa per i disastri legati all’allargamento del buco dell’ozono. Ora mettiamo pure quella profezia di sventura nel lungo elenco di minacce/scenari/previsioni che si sono rivelati infondati. È merito delle riforme intraprese per mettere fuori legge quei gas (clorofluorocarburi o Cfc) che generavano appunto il buco.

Però la certezza con cui venivano agitati gli scenari da fine del mondo dovrebbe farci riflettere sugli invasati odierni dell’Apocalisse: cambiano le profezie, nessuno fa mai autocritica per quelle che non si sono realizzate, non cambia mai il tono religioso e la presunzione di superiorità morale con cui i catastrofisti arringano il mondo.

Passo alle notizie meno buone, e prendo spunto da un’utile sintesi che Chicco Testa e Patrizia Feletig hanno pubblicato sul Foglio, intitolata “L’anno del carbone”. Se negli Stati Uniti la produzione di energia elettrica bruciando carbone è in calo (il carbone per la prima volta è stato superato dalle rinnovabili), nel resto del mondo le cose vanno in altra direzione. Il 2022 dovrebbe segnare il record di consumo di carbone, a quota 8 miliardi di tonnellate. La Cina fa la parte del leone: da sola consuma metà di tutto il carbone mondiale. La Germania nel 2022 ha fatto la sua parte per l’aumento dei consumi: paga così l’imprevidenza con cui per anni si è resa schiava del gas russo, quando Putin glielo ha tolto ha dovuto correre ai ripari rimettendo in funzione centrali termoelettriche a carbone, con un aumento del 19% nel consumo di questa energia fossile.

Se si può sperare che la Germania corregga il tiro a più presto, per Cina, India e altri paesi emergenti lo scenario è diverso. Ricordiamoci che siamo stati noi – paesi sviluppati – a volerci dare una buona coscienza ambientalista cacciando lontano dai nostri sguardi delle attività che nei loro cicli industriali hanno bisogno di carbone (o petrolio e derivati): acciaio, alluminio, cemento, carta, chimica. Noi continuiamo e continueremo a consumare acciaio, alluminio, cemento, carta, plastica, fertilizzanti e altri prodotti chimici, ma pretendiamo che non vengano fabbricati nel cortile di casa nostra e quindi li importiamo da paesi emergenti. I quali devono continuare a consumare carbone, e in quantità crescenti. Più in generale, la via d’uscita dalla miseria non può essere affidata a una utopica “scorciatoia” con zero emissioni carboniche.

In questo momento io vi scrivo dalla seconda città più popolosa dell’Africa, il Cairo: dieci milioni di abitanti, che arrivano a venti per la sua area metropolitana. È una megalopoli ancora piena di poveri, con alti tassi di disoccupazione giovanile, una polveriera sociale tenuta sotto controllo solo da una dittatura militare. L’iperinflazione alimentare, il crollo della lira egiziana, sono gli ultimi segnali di una situazione molto tesa. Immaginare che i venti milioni di abitanti del Cairo possano uscirne solo a base di energia solare ed eolica, significa non aver mai studiato con serietà i vincoli tecnici e i limiti di queste due fonti. Come dice Chicco Testa, «pensare di alimentare città di queste dimensioni con relative fabbriche usando energia intermittente e poco densa è una follia che solo la ZTL del mondo (l’Europa) può concepire». Tanto più che partiamo da una situazione in cui gli abitanti del Sud del pianeta consumano un ventesimo dell’energia (pro capite) rispetto a noi. Gli stessi eco-snob che gli propongono come unica soluzione qualche pannello solare sotto le piramidi, sono i primi che a casa loro fanno le barricate per difendere il paesaggio dall’assalto mostruoso… delle rinnovabili.

Il Sud del pianeta ha bisogno di soluzioni pragmatiche, praticabili, a costi contenuti: un mix che per molto tempo ancora dovrà prevedere consumi di energie fossili a fianco di quelle rinnovabili, nucleare, idroelettrico. Avrà bisogno di finanziare riconversioni delle industrie inquinanti (perfino una centrale a carbone non usa la stessa tecnologia e non sporca altrettanto sotto tutte le latitudini) con tanti investimenti da parte nostra. Oppure da parte della Cina.