di Simone Lanza

Recensione al testo di Serge Latouche, Come reincantare il mondo, la decrescita e il sacro, Torino, Bollati-Boringhieri, 2020; (ed. fr. Comment reenchanter le monde, Paris, 2019)

Con precisione Serge Latouche si muove tra le rigide decompartimentazioni accademiche delle scienze sociali, qualità ormai rara se non tra chi eccelle, analizzando i presupposti dello sviluppo e della crescita illimitata. Con grande erudizione, tra antropologia, economia e filosofia nelle sue opere Latouche ci ha sempre offerto profonde critiche dell’invenzione immaginaria dell’economia, dell’occidentalizzazione del mondo, della colonizzazione dell’immaginario e della desacralizzazione del profitto sfiorando, ma mai approfondendo, le questioni del sacro e della spiritualità. In questo breve saggio, Come reincantare il mondo, che raccoglie in un discorso più elaborato e unitario quattro contributi pubblicati solo su rivista, Latouche ritiene che se si parla di economia non sia azzardato trattarla come una dimensione vicina al sacro. Non esiste infatti la religione, ma solo forme diverse di fenomeni religiosi. Il sacro è invece una costante antropologica, “forza trascendente che impone e proibisce”. Pur essendo un costrutto immaginario della società, la relazione tra sacro ed economia è indubbia, come avevano indicato alcuni padri della ricerca sociale. Mentre la religione presuppone alcuni elementi che difficilmente sono universalizzabili, l’esperienza del sacro pervade le culture. Del resto anche Mauss e l’antropologia hanno da sempre evidenziato delle relazioni tra scambio economico e sacro. Come indubbia è la stigmatizzazione del denaro da parte di molte società precapitalistiche: dal vitello d’oro a Mammona, personificazione dell’avidità satanica. La fede e la credenza sono del resto sempre legate al debito e al credito.

Purtroppo la recente recensione apparsa su Doppio Zero di Michela Dall’Aglio, trasforma il saggio di Latouche in un pamphlet giornalistico e polemico. Nella recensione si travisa però il senso del saggio sostenendo che Latouche “contro la religione dell’economicismo e dello sviluppo propugna una forma laica di ateismo.” E ribadisce che “questa perniciosa e falsa religione [dell’economia] si combatte contrapponendole una nuova forma di ateismo.”  Arriva persino a sostenere che “la mancanza di profondità nell’argomentazione finisce per alimentare la superficialità e i luoghi comuni.” Ma i luoghi comuni sono quelli di chi recensisce confondendo la posizione laica con atea o riassumendo il pensiero con termini del tutto estranei all’argomentazione di Latouche: “siccome l’uomo è fatto di passioni e desideri, l’intelligenza non basta a convincerlo alla rinuncia.”

L’argomentazione di Latouche è invece molto seria e innovativa, riprendendo tesi di classici della sociologia. Nella storia moderna “la santificazione dell’economia presuppone un aggiornamento della dottrina della Chiesa e la cancellazione dell’antica maledizione del denaro”. Seguendo la nota tesi di Weber, questa rottura si ha con la laicizzazione dei valori protestanti e lo sviluppo dei valori utilitaristici. In questo passaggio, avidità e interesse personale si trasformano magicamente da vizi in virtù. Si tratta di una svolta epocale situata nel XVIII secolo, su cui Latouche ha già insistito in diverse sue opere (L’invenzione dell’economia, 2001). Da allora il progresso diventa articolo di fede, gli antichi vizi principi generali della natura equiparabili alle leggi newtoniane.

Da questi presupposti Latouche si spinge a disegnare l’economia come sapere sacro, ma spesso associa l’economia alla stessa religione, come fatto sociale totale in linea appunto con Mauss, che pervade l’anima e il corpo, la vita privata e pubblica: questa dimensione nella modernità è propria dell’economia. I colonizzatori ed esperti di sviluppo sono oggi i veri missionari; il culto è quello della crescita; il progresso è articolo di fede; i centri commerciali sono i luoghi sacri; i templi dell’economia sono le borse; la pubblicità, il suo credo, i consumi i suoi rituali liturgici, i saldi le feste rituali; la concorrenza sono le Tavole della Legge; i suoi misteri sono i paradisi fiscali accessibili ai pochi adepti. La fede nel denaro ha da sempre avuto bisogno della religione come ci ricordano le banconote americane: “In God We Trust”.

Infine, dato più importante, questa religione si fonda sul disincanto del mondo, distruggendo il legame sociale, generando una sorta di anticultura come già aveva sottolineato in L’occidentalizzazione del mondo (1989). Per riprendere le parole di uno dei suoi maestri, Castoriadis, “l’uomo occidentale non crede più a niente, se non che avrà presto un televisore ad alta definizione”.

Il saggio ha il suo baricentro nei due capitoli di critica minuziosa delle encicliche papali, aprendo un dialogo con i credenti cattolici (ma non solo): Caritas in veritate di Benedetto XVI e Laudato si’ di Francesco. Dalla loro contrapposizione si delinea un nuovo modo di intendere la relazione tra spiritualità e politica economica.

L’enciclica Caritas in veritate si limitava a condannare gli eccessi del capitalismo, considerava naturale il Mercato, sentenziava – come Stalin – che “ogni lavoratore è un creatore” e in definitiva associava la parola sviluppo – che ricorreva due volte per pagina – al Vangelo: “un mondo senza sviluppo esprime sfiducia nell’uomo e in Dio” – per usare le parole dell’enciclica stessa.

Il vaticano, che ai tempi di papa Giovanni Paolo II beneficiava del consigliere Camdessus, ex direttore del Fondo Monetario Internazionale, ha sempre nutrito fiducia nella globalizzazione come fase della cristianizzazione del mondo. Rompe con questa tradizione solo papa Francesco, che, dando voci a centinaia di vescovi del mondo, inizia l’enciclica con una sana autocritica e una grande apertura ecumenica. Qui ci si muove in una ecologia integrale capace di andare alla radice dei problemi della globalizzazione: “un vero approccio ecologico diventa sempre un approccio sociale, che deve integrare la giustizia nelle discussioni sull’ambiente, per ascoltare tanto il grido della terra, quanto il grido dei poveri” (§49). Si condanna chiaramente la crescita illimitata e si evidenziano le affinità con la decrescita: “è arrivata l’ora di accettare una certa decrescita in alcune parti del mondo, procurando risorse perché si possa crescere in modo sano in altre parti” (192). Nonostante l’esplicita vicinanza tra la decrescita e la religione tradizionale, Latouche non rinuncia a criticare alcune ambiguità terminologiche di Bergoglio, come lo sviluppismo. Mi pare però che sia più un termine più di circostanza che un concetto teologico; del resto le posizioni politiche sono in dialogo con i movimenti in modo molto netto, basti pensare ai discorsi di papa Francesco Terra, casa, lavoro, discorsi ai movimenti popolari su cui Latouche purtroppo non ha approfondito, ma che fuggono ogni ambiguità sulla discriminante etica del papa dei poveri.

Il saggio si conclude con delle considerazioni dirompenti che partono dall’esperienza di chi pratica la decrescita (prima ancora che dal punto di vista teorico), ma sono valide per tutti gli orizzonti anti-sistemici, valide istruzioni per attivisti e obbiettori di crescita: chi si organizza in forme collettive riesce meglio laddove il collante non è solo politico ma anche spirituale. Non dobbiamo infatti dimenticare l’engagement politico di Latouche come obiettore di crescita che dialoga e vive nei movimenti sociali.

Latouche analizza la questione da un punto di vista laico (il termine laico in italiano e francese non sono sovrapponibili, e l’autore rimarca acutamente le differenze sociali e linguistiche tra i due paesi). Personalmente ateo, (“l’entusiasmo religioso è sempre sospetto”, “non è necessario credere al soprannaturale”) riconosce non solo che tra credenti e non credenti non ci debbano essere discriminanti, ma che l’orizzonte culturale alternativo alla crescita debba avvenire senza rimuovere la questione spirituale.

Come Sorel all’inizio del XX secolo riteneva importanti i miti per la lotta della classe operaia, anche noi oggi siamo chiamati a reincantare il mondo per cambiarlo. Per “guarire dall’incanto del disincanto”, che si concretizza in nuove forme di disagi e malattie mentali, un conformismo della disillusione, bisogna anche trasmettere poeticamente la dimensione che il mondo disincantato della scienza sta facendo perdere. La modernità vive infatti immersa in ciò che Weber aveva definito il disincanto (Entzauberung), la perdita di magia/incanto dovuta alla scientifizzazione del mondo.  Pertanto i poeti possono essere d’aiuto perché, con le parole di Oscar Wilde, “l’arte è inutile e dunque essenziale”, ma non si tratta della sola dimensione estetica.

Latouche ritiene che “la via della decrescita implica una qualche forma di spiritualità” e persino che il compito sia quello di ristabilire una “vera dimensione spirituale della condizione umana” che le società cristiane consumistiche hanno perso. Il suo invito laico – che ci ricorda le ultime riflessioni di Arendt su Kant (il bello e il comune) – rimane tuttavia assolutamente al di qua del terreno religioso: è una dimensione legata alla meraviglia, al bello e alla ragionevolezza. Del resto anche su questo fronte – concepito come “trascendenza immanente” – saremo sempre più chiamati a nominare il sacro: “sì bisogna sacralizzare la natura”, asserisce Latouche, intesa come mondo naturale di piante e animali. Una sacralità delle rocce che ricorda il teologo della liberazione Leonardo Boff. Proprio quella natura a cui l’economia non ha dato né valore né prezzo.

Se nel corso del XX secolo la religione sembrava condannata all’uscita graduale dalla storia, all’inizio del XXI secolo lo scenario sembra mutare. Latouche non si fa influenzare dalle sirene del secolo e ripropone la questione ripartendo dal sacro. Il saggio quindi apre a diversi ulteriori spunti di analisi, di cui mi permetto di segnalarne due.

Sul piano teologico, la questione del reincanto meriterebbe di essere approfondita anche in relazione allo spunto sulla demitologizzazione, la Demythologisierung indicata come sinonimo di disincanto (Entzauberung) mi sembra invece un termine teologico (Bultmann) che presuppone la conservazione del kèrigma – una certa fiducia/fede oltre gli incanti del mito – e andrebbe quindi nella direzione della conservazione del reincanto dopo il disincanto.

Sul piano della relazione tra teologia ed economia, come nota Enzo Bianchi in Tuttolibri, in una recensione questa sì all’altezza del saggio, c’è un interessante nesso tra economia e religione prima della moderna economia basata sulla crescita. Per Latouche in quel mondo «prima dell’invasione della metafora religiosa in economia, c’era un’invasione paradossale della metafora economica nel religioso, in particolare nelle religioni del debito e del riscatto». Questa pista andrebbe approfondita perché persino Gesù o Dante usano la moneta come metafora di fede. C’è quindi una sottile ambiguità in cui interesse e gratuità, Dio e Mammona, si contendono qualcosa tra economia e spiritualità, come spiegò già Mauss. Per non parlare poi appunto del nesso tra debito e colpa (Schuld).

Un’altra pista di studi ricavabile da Latouche è data dal descrivere una sorta di filo rosso etico all’interno dell’economia stessa. Un pensiero economico critico della stessa economia: Latouche ricorda come l’innaturalità dell’economia basata sul solo profitto fosse già stata denunciata da Aristotele come crematistica. Nella crematistica infatti il normale processo di scambio che vede nel denaro un semplice mezzo (la merce si scambia con denaro che procura altra merce: M-D-M) si trasforma in un processo dove il mezzo diventa il fine: il denaro si scambia con la merce per ottenere più denaro (D-M-D). Marx aveva proseguito l’analisi articolandola nel feticismo della merce, che Latouche cita di sfuggita. La relazione tra Aristotele e Marx, la convergenza di entrambi nella proiezione dell’assiologia nell’ontologia, ci riporta alla critica dell’economia come religione: l’economia proprio laddove pretende di espellere ogni valutazione etica, espugna il ruolo apicale della decompartimentazione accademica dei saperi, in cui fino a due secoli fa il ruolo apicale era della teologia. Il saggio di Latouche, per la sua brevità e profondità, ci auguriamo possa avere un ruolo stimolante per il XXI secolo simile a quello avuto dal Saggio sul dono di Mauss nel secolo passato.