La parola d’ordine della decrescita ha incontrato nello spazio di un anno un notevole successo. Ma denunciare gli errori della nostra società non è sufficiente, dobbiamo difendere i valori di condivisione e di democrazia: la decrescita deve essere compresa fino in fondo come un’occasione per tutti e non come un impoverimento. Dobbiamo anche portare questa parola di dissenso, che i nostri avversari sarebbero troppo felici di vederci abbandonare, nella sfera politica.

Sappiamo che non esistono sviluppo e crescita senza fine. Al contrario, pensiamo che la nostra umanità non emerga se non quando siamo capaci di stabilire dei limiti. Ma non è sufficiente essere contro la crescita economica e le società sviluppiste, dobbiamo dire a partire da quali punti di vista, fondandoci su quali valori, noi vogliamo costruire un altro tipo di società. La questione non è solo essere in favore della decrescita, ma sapere quali contenuti vogliamo dargli, poiché, se esiste una teoria critica della crescita, non esiste una teoria vera e propria della decrescita. Questa parola d’ordine è una parola-bomba per polverizzare il pensiero economista dominante, che non si limita al neoliberismo.
Il rapido successo della parola d’ordine della decrescita è dovuto alla coesistenza delle quattro crisi maggiori del sistema: la crisi ambientale (deregolamentazione del clima), la crisi sociale (aumento delle diseguaglianze), la crisi politica (disaffezione e deriva della democrazia), la crisi dell’essere umano (perdita di senso). Il sistema sviluppista schiaccia l’uomo così come schiaccia i legami sociali e distrugge la natura. La parola d’ordine della decrescita è quindi un tentativo per avviare l’uscita da questa quadrupla crisi. Il termine ha degli inconvenienti: è negativo, flirta persino talvolta con immagini ambigue. Quella secondo cui «la terra non mente mai» del maresciallo Pétain, o le dichiarazioni del barone Seillière: «Bisogna fischiare la ricreazione». Siamo quindi su uno spartiacque. Ma la decrescita ha un vantaggio considerevole sui concorrenti: è molto difficilmente reintegrabile. Attacca frontalmente il capitalismo e la società di consumo nella loro ideologia ma anche nel loro immaginario, senza limitarsi alle loro conseguenze.

La condivisione al centro

Di fronte al concetto di decrescita, alcuni economisti altermondialisti hanno sviluppato recentemente l’idea di una «decelerazione» della crescita (1). Questo termine ha il limite di voler stare contemporaneamente sia fuori che dentro. La «decelerazione» salvaguarderebbe i vantaggi della crescita ma eliminerebbe i suoi inconvenienti. Nel tentativo di salvare capre e cavoli, rinforza l’illusione che si possa fare la stessa cosa con meno mezzi. La «decelerazione» ci relega nell’ambito del quantitativo, del contabile, dell’economicismo. La decrescita pone il problema del contenuto delle ricchezze, quindi quello dell’utilità sociale dei beni.

Non dobbiamo temere di riaffermare senza dubbi che la decrescita non è la la decrescita di tutti né per tutti. Si applica ai «supersviluppati», all’«ex-crescita», alle società e alle classi sociali la cui obesità e bulimia sono conseguenze della captazione delle ricchezze dei più deboli e allo stesso tempo un processo di auto-distruzione. La questione della condivisione, quindi della democrazia, precede quella dell’economia. A partire da lì, il movimento in favore della decrescita deve lavorare all’articolazione di tre livelli di resistenza: il livello della resistenza individuale, la semplicità volontaria; il livello delle alternative collettive, che permettono di inventare altri modi di vivere per generalizzarli; il livello politico, cioè quello dei dibattiti e delle scelte collettive fondamentali della società. Non dobbiamo abbandonare il campo politico ai nostri avversari: dobbiamo essere dei guastafeste dello sviluppo a tutto tondo. Se non pratichiamo il dissenso politico, base della democrazia, nessuno lo farà al nostro posto. Lo stesso concetto di decrescita sarà svuotato del suo senso e strumentalizzato da personaggi interessati. Esistono oggi le condizioni perché il nostro discorso sia ascoltato e faccia breccia. E’ nostro dovere di cittadini di impegnarci e partecipare al processo democratico. Dobbiamo spiegare agli esclusi e ai delusi della crescita, a tutti i senza-voce, che la vera alternativa non è più tra la nostra crescita e la decrescita, ma tra recessione e decrescita.

No al catastrofismo

Dobbiamo perciò fare attenzione a qualsiasi discorso pessimista come quello sulla petroapocalissi, cioè la fine del petrolio vista come un caos ineluttabile. Non solo questo atteggiamento è pericoloso perché smobilita e favorisce i comportamenti cinici, ma soprattutto, lascia credere che sceglieremmo la decrescita in mancanza di meglio. Anche se una crescita illimitata fosse possibile, soprattutto se fosse possibile, noi saremmo ancora di più obiettori della crescita per poter essere semplicemente degli esseri umani, per non soccombere ai fantasmi dell’onnipotenza. Non difendiamo la decrescita con il linguaggio del necessario, ma con quello del politico. Il catastrofismo alla Yves Cochet (2), deputato verde ed ex ministro dell’ambiente, fa balenare l’idea che saremmo condannati alla decrescita. A prescindere dalle buone ragioni ecologiche, noi dobbiamo rifiutare prima di tutto l’alienazione di una società che riduce l’uomo alla sua sola dimensione economica.

I partigiani della decrescita non sono degli eco-pessimisti, né degli archeo-nostalgici che sognano un ritorno alla società del passato. Non si tratta di tornare indietro verso uno pseudo paradiso perduto, si tratta di deviare collettivamente. Non siamo di fronte a nuovi puritani che giocano a più-decrescente-di-me-muori! Non vogliamo rimpiazzare il politico con il giudizio morale né ridurre la morale al religioso. Non andiamo incontro alle persone pronunciando anatemi: la decrescita non appartiene a nessuno. Sappiamo che questo nuovo paradigma scombussolerà le filiazioni politiche, ideologiche, filosofiche, per redistribuire le carte e le alleanze necessarie per ripensare il mondo. Ma non partiamo per la battaglia a mani vuote: sappiamo per esempio che sarà necessario arrivare a una rilocalizzazione dell’economia. La nostra decrescita la vogliamo conviviale, immediata e socialmente giusta.

 

Paul Ariès per l’Institut d’études économiques et sociales pour la décroissance soutenable, aprile 2005

(1) Lo sviluppo ha un futuro? ATTAC, Ed. Mille et une nuit, 2004. La parola decelerazione è proposta come «prima tappa verso una decrescita selettiva».

(2) Intervento al seminario di Montbrison, organizzato dall’istituto di studi economici e sociali per la decrescita sostenibile (IEESDS), il 5 e 6 febbraio 2005.

(Traduzione di alessandra coletti) articolo tratto da znet.it