Di Luigi Oddo

L’allocazione delle risorse

Per chi, come me, ha passato svariati anni nelle facoltà di economia italiane (ma il discorso vale ancora di più nei paesi anglosassoni) una cosa appare lampante: il tema principale su cui è imperniata tutta la scienza economica è l’analisi dell’economia di mercato in tutte le sue forme. Tutto, in un modo o nell’altro, ruota attorno ai concetti di domanda e offerta, sia che si tratti di economia del lavoro, di economia della conoscenza, di economia dei mercati finanziari o di qualsiasi altra materia in cui il sostantivo economia appaia nel nome. Che poi gli economisti di tutto il mondo si siano schierati dalla parte del mercato o contro di esso, o in un’infinita serie di posizioni intermedie, non pregiudica di molto l’affermazione precedente. Fondamentalmente, lo studio della disciplina economica cerca costantemente di rispondere a questa domanda: l’economia di mercato è il miglior sistema per garantire il benessere sociale? C’è chi dice sì, c’è chi dice no e c’è una moltitudine che risponde: “Dipende!”,  aggiungendo ognuno la propria ricetta, keynesiana, neokeynesiana, sraffiana, kaleschiana ecc. ecc.

Io, che mi reputo un decrescente, cioè un individuo che vede negli eccessi della società attuale la causa di un degrado ambientale (e non solo) che sembra essere arrivato a livelli da collasso per il nostro pianeta, aggiungo sempre un altro pezzetto alla domanda precedente: l’economia di mercato è il miglior sistema per garantire il benessere sociale all’interno di un sistema biofisico chiuso come quello della Terra? Questa piccola aggiunta cambia radicalmente il quadro di riferimento. Tuttavia, sebbene non sia certo il solo a pormi questa domanda tra coloro che, per formazione e titoli, si possono definire economisti, ciò che mi contraddistingue, come decrescente, da un economista ambientalista è la consapevolezza che la tecnologia, da sola, potrebbe questa volta fallire nell’evitare la catastrofe, ragion per cui, anziché  rischiare la scommessa tecnologica, io decido di riporre la mia fiducia in una soluzione più avversa al rischio: una vita all’insegna della sobrietà e scevra dal feticcio del consumismo. Per questo motivo, la mia risposta alla famosa domanda sull’adeguatezza dell’economia di mercato dovrebbe essere un palese e perentorio “NO!”.

Tuttavia, da economista mai pentito quale sono, ho iniziato a chiedermi: ” Che cos’è l’economia di mercato?”. E soprattutto: “Economia di mercato e crescita sono sinonimi?”. Se prendiamo la definizione degli economisti neoclassici di fine XIX secolo – ma la definizione attuale non è cambiata di molto – l’economia di mercato è una sistema di allocazione delle risorse, né più né meno. Che voi leggiate il libro di Leon Walras pubblicato nel 1874 (uno dei padri fondatori del marginalismo) o il nuovissimo manuale di Robert Frank e Edward Cartwright in stampa 2022 la definizione rimane pressoché immutata: l’economia di mercato è un luogo ideale dove vengono scambiati beni e servizi, compreso il lavoro, ad un determinato prezzo, in condizione di scarsità relativa. Da un punto di vista analitico, seguendo questa definizione, l’equilibrio a cui si giunge in ogni mercato tra domanda e offerta è l’ottimo paretiano, cioè la migliore allocazione possibile dati i prezzi dei beni fissati dai produttori e il reddito dei consumatori. Matematicamente parlando, non esistono soluzioni  alternative migliori. In linea di principio, ogni produttore venderà esattamente quanto si aspetta di vendere e ogni consumatore acquisterà esattamente ciò che desidera acquistare. Nei fatti, i venditori che non riescono a vendere tutto il loro prodotto saranno incentivati ad abbassare i loro prezzi mentre i consumatori che non riescono ad acquistare tutto ciò che desiderano saranno incentivati a migliorare la loro posizione economica. I prezzi e i redditi, in questo contesto, svolgono il ruolo di vincolo in quanto non tutto può essere acquistato da tutti. L’equilibrio di mercato, dunque, si erge a giudice di ciò che va prodotto e ciò che va consumato, così come deciderà quali dovranno essere i lavori meglio retribuiti e quelli meno retribuiti. Ma chi decide quale bene o servizio merita di essere prodotto o venduto ad un certo  prezzo? Chi decide quale lavoro merita di essere pagato di più e quale meno? Nonostante la risposta più ovvia sembri essere semplicemente: “Il mercato”, in realtà, dietro la parola mercato, si cela una cosa soltanto: noi tutti. Noi siamo i consumatori e noi siamo i produttori, così come siamo i lavoratori. Se c’è una cosa su cui gli economisti neoclassici non possono essere attaccati, almeno sulla carta, è il concetto di democrazia assoluta che il mercato ideale rappresenta, una soluzione totalmente decentrata che, nella sua versione più pura, non abbisogna di istituzioni complesse per funzionare, ad eccezione di quelle atte a far rispettare la proprietà privata e i contratti. Nel mercato ideale sono i consumatori, in base alle loro preferenze, a decidere cosa acquistare, e saranno i produttori a soddisfare queste richieste, cercando di farlo al minor prezzo possibile o meglio con il miglior rapporto qualità prezzo. Lo stesso vale per il  lavoro: ognuno di noi è libero di scegliere che mestiere provare a fare   – il pizzaiolo/a, l’accademico/a, il fruttivendolo/a, l’analista informatico ecc. – sarà poi il mercato, ovvero noi consumatori, a decidere quale di queste attività deve essere remunerata di più e quale di meno. Nessuno obbliga nessuno ad acquistare qualcosa, così come nessuno obbliga nessuno ad intraprendere un dato mestiere: il concetto di economia di mercato si basa sullo scambio volontario, in qualsiasi forma esso si traduca. Che poi il mercato ideale non sia in grado di limitare distorsioni, anche parossistiche, che si formano nei mercati reali, è sotto gli occhi di tutti. Che un calciatore di serie A venga pagato annualmente quanto l’intero ammontare dell’investimento fatto per la costruzione dell’ospedale San Raffaele di Milano ha del surreale, così come, camminando per le strade dell’isola greca di Santorini, mi accorgo che l’economia di mercato ha prodotto solo orribili negozi e ristoranti per turisti che vendono tonnellate di cianfrusaglie a prezzi spropositati in un contesto dove  mancano bagni pubblici e servizi di base come delle semplici ed indispensabili fontane di acqua potabile. Tuttavia, questo non mi sembra un intrinseco problema dell’economia di mercato, bensì un problema culturale. Se i turisti scelgono di  pagare fior di soldi per passare le loro giornate all’interno di edifici (di dubbio gusto estetico) con piscine arroccate sulle bellissime colline di Santorini per farsi l’immancabile selfie con il cocktail in mano non è per forza da imputare al mercato. Se infatti preferissero un turismo più sostenibile e culturalmente edificante non esisterebbe lo scempio che ho visto nell’isola culla della civiltà cicladica. Lo stesso – neanche a dirlo – vale per il calciatore strapagato di serie A: basterebbe smetterla di riempire gli stadi ogni domenica (e non solo) e spendere milioni di euro l’anno in abbonamenti per la pay-tv. Una società culturalmente emancipata non ha bisogno di rinunciare all’economia di mercato come sistema di allocazione delle risorse per avere un mondo più sostenibile e migliore. Se l’economia di mercato moderna è separata dalla sfera sociale e culturale, come sosteneva Polanyi, perché non agire su questa anziché intervenire sul mercato?

Specializzazione del lavoro, competizione, sviluppo e innovazione

Circa dal secondo dopoguerra in poi la scienza economica si è resa conto che, per comprendere l’economia, i suoi meccanismi e il suo sviluppo, fosse necessario guardarsi indietro, guardare alla storia (o meglio alla storia dell’economia) per capire cosa abbia fatto sì che alcuni paesi siano diventati ricchi e prosperi (dal punto di vista materiale) ed altri no. Questi studi hanno collocato nella Rivoluzione Industriale il break-point per l’inizio dell’epoca della crescita economica sostenuta, fase nella quale il  reddito pro-capite delle persone, quindi il loro standard living, migliora costantemente generazione dopo generazione. L’economia si apprestava, in quell’epoca, a trasformarsi da una scienza statica ad una scienza dinamica. Ora non è questa la sede per lanciarsi in una rassegna della storia economica del mondo e dei risvolti che questa ha avuto sulla storia del pensiero economico, tuttavia, in maniera molto generale, si può affermare che questa trasformazione della scienza economica sia stata accompagnata dalla diffusione della credenza che l’avvento contemporaneo dell’economia capitalistica, erroneamente confusa con l’economia di mercato, e della Rivoluzione industriale fosse la formula vincente per lo sviluppo materiale delle società. D’altro canto, questa visione implicava assumere che, prima di essa, il mondo fosse vissuto nella povertà, nell’incertezza e in assenza di mercati. Tuttavia, il progredire delle scienze storiche legate all’economia ha gradualmente eroso questi assunti. Come in tutte le cose, anche la Rivoluzione industriale e l’economia capitalista, con il suo sistema di fabbrica e il lavoro salariato su larga scala, non sono apparse all’improvviso, l’economia di mercato, intesa nel senso delle scienze economiche, è sempre esistita a fianco dell’autoconsumo e della redistribuzione, anche in epoca preindustriale. Il motivo è semplice: la necessità della divisione e della specializzazione del lavoro. Se c’è una cosa che ha accomunato quasi tutte le popolazioni che hanno abitato l’Eurasia dall’alba dei tempi è il loro tentativo costante di migliorare le loro condizioni di vita. Questo, nei tempi antichi, implicava anche la rapina, il furto, la conquista, lo sfruttamento, lo schiavismo, ma anche la divisione e la specializzazione del lavoro, rese possibile attraverso i mercati delle grandi città. Se nelle grandi metropoli del mondo greco o romano, così come del medioevo italiano o francese, un nostro avo era più abile a produrre un tavolo mentre un altro era più abile a produrre sedie, e se questi fossero venuti in contatto, molto probabilmente avrebbero iniziato ognuno a specializzarsi rispettivamente nella produzione di tavoli o di sedie per poi scambiarsele ad un costo più conveniente rispetto all’autoproduzione. Per questo motivo, fin dai tempi di Adam Smith, la divisione e la specializzazione del lavoro, da un lato, e l’economia di mercato, dall’altro, sono sempre state viste come due facce della stessa medaglia. Ed è per questo stesso motivo che l’economia di mercato e la specializzazione, alimentata dalla competizione, sono sempre state viste come la ricetta vincente per valorizzare al meglio l’intelletto e le abilità dei singoli individui. Ovviamente, i mercati non esistono ovunque e non sono esistiti in ogni tempo: non basta, infatti, che due persone siano vicine di casa e abbiano abilità diverse per crearlo ma sono necessarie anche istituzioni atte a farlo funzionare e a garantire un ambiente idoneo alle transazioni, come ci insegnano le scoperte degli ultimi settant’anni nel campo dell’economia delle istituzioni.

Per i motivi sopra citati, la scienza economica, in quanto nata in concomitanza dell’Illuminismo, è da sempre una scienza positivista che crede smodatamente nelle capacità dell’essere umano. La storia le dà in  parte ragione (come negare, infatti, le meraviglie architettoniche e tecnologiche che l’essere umano è stato in grado di costruire partendo dal semplice principio della divisione e della specializzazione del lavoro?). Se si crede che le differenze tra gli individui vadano valorizzate e che ognuno di noi abbia  risorse e capacità peculiari, il sistema dell’economia di mercato è stato fino ad oggi il modello più riuscito per garantire che queste emergano, senza bisogno di astruse e complicate architetture istituzionali che si prendano la briga di decidere cosa e come produrre e su quali innovazione puntare. L’innovazione, per la legge dei grandi numeri, segue questa tendenza; infatti, nel modello dell’economia di mercato, siamo tutti potenziali inventori, un esercito di inventori, e non c’è nessuna istituzione centralizzata che possa produrre un livello di innovazione tale, a parità di condizioni. Tuttavia, la specializzazione del lavoro e l’innovazione non sono solo guidate e stimolate dalle preferenze dei consumatori e dall’abilità dei produttori ma anche dal livello di competizione del mercato. Gli economisti liberisti, da sempre, vedono nell’aumento della competizione la panacea di tutti i mali, in quanto un’accresciuta competizione, a loro avviso,  porterebbe i produttori a migliorarsi continuamente e ad innovare per rimanere nel mercato. Prendendo l’esempio precedente dei tavoli e sedie, se supponete che a produrli siano dieci artigiani invece che solo uno, ma che la domanda rimanga ferma a quella di un solo consumatore, è ovvio che gli artigiani faranno a gara per offrire il prodotto migliore al miglior prezzo. Se questa situazione risulta conveniente per il nostro consumatore, che si troverà così il miglior tavolo possibile, il problema ricade allora  sui nove produttori di tavoli che non sono riusciti a vendere il loro  prodotto. Cosa ne sarà di loro? L’economia neoclassica risponderebbe in maniera un po’ naif, argomentando che i nove produttori si ri-collocheranno in altri settori nei quali le loro abilità saranno più apprezzate; tuttavia, questa soluzione è molto più facile in teoria che in pratica. In verità, probabilmente, i nove produttori rimarranno senza lavoro per un periodo più o meno lungo e l’unico produttore che è riuscito ad allocare il tavolo per farlo ha dovuto probabilmente sottopagare i suoi garzoni. La competizione, infatti, se non regolata opportunamente, rischia, come già capita oggigiorno in molti settori, di sfociare in forme di sfruttamento e di elevata disoccupazione. Tuttavia, bisogna ammettere che il tavolo migliore è quello prodotto nel sistema di mercato. Naturalmente, finché si parla di tavoli il discorso fa quasi sorridere, però se si riesce ad estendere con l’immaginazione questo ragionamento a tutti i beni e i servizi emerge come questo sistema abbia portato a grandi conquiste in tutti i campi, per esempio in campo medico grazie allo sviluppo delle nanotecnologie e dell’informatica. Bisogna dunque trovare un modo per evitare che la concorrenza schiacci lavoratori e produttori, ma allo stesso tempo non bisogna imbrigliare il genio umano che, sebbene abbia spesso dispensato distruzione e morte, molte altre volte è stato esempio di talento cristallino.

Economia di mercato e crescita

Dulcis in fundo, si arriva alla domanda più importante per un economista che crede nella causa della decrescita: l’economia di mercato è sinonimo di crescita? La risposta come al solito è: “Dipende!”. La crescita economica difatti è auspicabile ma non strettamente necessaria anche in condizioni normali. Perché è auspicabile? Per un semplice motivo e cioè che se la popolazione tra la generazione n-1 e la generazione n cresce del 2% e l’economia  del 1% può voler dire solo due cose: 1) tutti abbiamo una percentuale più bassa di reddito, o 2) alcuni sono diventati molto più ricchi, mentre altri sono diventati molto più poveri. Assumendo che il benessere economico si valuti prendendo come benchmark il tenore di vita delle fasce più deboli della popolazione, entrambe le soluzioni sono peggiorative. Se invece assumiamo che la crescita della popolazione sia del 1% mentre il Pil complessivo cresce del 2% siamo nella situazione diametralmente opposta. Più alti redditi pro-capite implicano livelli di vita più elevati e soprattutto, ad esempio per i paesi europei, un gettito fiscale più cospicuo, con il conseguente miglioramento, almeno in teoria, dei servizi pubblici, quali l’istruzione, la sanità, i servizi sociali ecc. Gli economisti neoclassici affermerebbero anche che la crescita stimola l’innovazione: aspettative di più alti profitti implicherebbero, secondo loro, un maggiore incentivo per raggiungere questo obiettivo da parte dei produttori. Sebbene non sia assolutamente convinto di questa ipotesi, devo purtroppo ammettere che in un mondo in cui troppo spesso si confonde la ricchezza ostentata con la felicità questa affermazione potrebbe essere parzialmente vera. Tuttavia, rimango anche pienamente convinto del contrario. Una società emancipata e culturalmente elevata sarà in grado di tendere al meglio anche senza la carota dei profitti crescenti.

Il discorso della crescita economica come auspicabile per il benessere collettivo, compresi i più deboli, è invece molto più incisivo. Non a caso, le uniche volte che qualche economista si è espresso  a favore di uno scenario di decrescita lo ha fatto solo per i ricchi paesi del Nord Europa, dove anche una crescita zero non impatterebbe sulle fasce più deboli della popolazione. In ogni caso, queste argomentazioni non escludono la possibilità di abbandonare la crescita mantenendo i mercati come strumento di allocazione delle risorse in un contesto culturale radicalmente diverso. Il rischio così immediato di una crisi climatica non ammette alternative, dobbiamo rinunciare alla crescita ed attuare politiche di redistribuzione dei redditi per aiutare quelle fasce della popolazione che verranno probabilmente danneggiate dall’assenza di crescita. Inoltre, politiche di contenimento demografico non solo limiteranno l’aumento  del degrado ambientale, ma concederanno anche un margine di manovra in termini di decrescita: riducendo la popolazione si potranno attuare politiche di decrescita più decise ed efficaci, in quanto le limitazioni demografiche attenueranno di molto le problematiche relative alla possibile riduzione del Pil. Questa per me risulta essere la soluzione più praticabile nel breve periodo: riduzione della crescita, e dove possibile rafforzamento dell’autoproduzione comunitaria, lasciando ai mercati i settori in cui non è possibile affidarsi all’autoproduzione, politiche demografiche volte alla riduzione della popolazione e, infine, tassazioni maggiormente progressive per accompagnare e attenuare il passaggio da un’economia di crescita a una di decrescita.

Suggestioni conclusive

Lungi dal voler dare indirizzi di policy, in quanto questo resoconto non ha assolutamente l’ambizione di essere un documento scientifico, mi limiterò a tirare un po’ le somme di quanto espresso. Il problema di concepire l’economia di mercato come principale causa della situazione attuale va posto in termini non equivoci, fondamentalmente è un problema di definizioni. Tentare di portare avanti il discorso della decrescita imboccando la strada della rinnegazione totale dell’economia è un concetto che crea malintesi ed è, secondo me, destinato ad arenarsi sulla spiaggia della realtà. L’economia di mercato come mezzo di allocazione delle risorse è sempre esistita, e difficilmente si può pensare ad un mondo senza di essa, sia che si basi sulla crescita o sulla decrescita. Gli esiti dell’economia di mercato non sono inevitabili, ma sono bensì dovuti al contesto socioculturale in cui essa si trova. Con un’intensità mai vista prima nella storia, il successo economico e l’ostentazione della ricchezza sono divenute sinonimo di felicità e realizzazione personale. Invertire la tendenza è possibile ma non sarà impresa semplice. Ma se noi, come decrescenti, crediamo che le persone possano  vivere in comunità condividendo le risorse e collaborando,  potremo  anche ritenere che sia possibile sfruttare i vantaggi dei mercati senza necessariamente essere schiavi del consumismo e del denaro.

 

Luigi Oddo, 25/08/2022