Un articolo di May AyeThiri, Sergio Villamayor-Tomás, ArnimScheidelFedericoDemaria, tradotto e riassunto da Karl Krahmer del Gruppo Internazionale

Il clima ha cominciato a cambiare. Lo notiamo ormai quasi tutti i giorni. E allo stesso tempo le emissioni continuano a crescere. La politica si dimostra inefficace – come denunciato dal famoso “Bla, bla, bla” di Greta Thunberg. E sappiamo che questo è dovuto in buona parte perché manca il coraggio per affrontare la questione centrale: la crescita economica e dunque ingiustizie globali e locali, rimane ancora forte l’ambizione di essere sempre più ricchi mentre altri affogano o bruciano. Letteralmente.

Resta solo disperarsi, dunque? No, certamente, quantomeno non è per questo che stiamo facendo lo sforzo di scrivere queste righe. Uno studio recente di Thiri et al. (https://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S0921800922000180) è un lavoro affascinante e un piccolo pezzo di speranza che ci dovrebbe spronare tutt* a non disperare, di agire piuttosto.

Conoscete la sensazione frustrante di protestare, di manifestare, di dibattere, di raccogliere firme, di occupare e che poi non cambia niente? Io benissimo. E forse spesso davvero è così. Forse però, è anche un’illusione ottica che ci fa prendere dallo sconforto. Perché le mobilitazioni spesso non sono senza conseguenza. Spesso ottengono, almeno in parte quello che chiedono. Gli autori di questo studio ce lo dimostrano attraverso un’analisi sistematica di studi di caso di movimenti sociali che si sono opposti all’estrazione, al trasporto, alla raffinazione di carbone, petrolio e gas in tutto il mondo. Dopo aver selezionato tra migliaia di studi, gli autori sono arrivati a 57 casi su cui c’erano dati sufficienti per fare una valutazione dell’efficacia delle strategie messe in campo dai movimenti sociali per effettivamente ridurre le emissioni di gas serra. Ed i risultati della loro analisi sono incoraggianti. Certo, non è mai facile dire quante emissioni alla fine a livello globale sono state evitate grazie a una determinata mobilitazione. Ma il ripetersi di successi sembra agli autori un indicatore sufficientemente forte per dire che vale la pena mettersi in marcia.

Che tipo di successi sono?

Gli autori li hanno suddivisi in dieci categorie. Concentriamoci su tre di queste: aver ritardato un progetto, aver bloccato un progetto, aver fatto sì che si emanasse nuova legislazione / regolamentazione.

Sono 26 i casi in cui i movimenti sono riusciti a ritardare un progetto. Ora si potrebbe dire: che importa, se alla fine lo si fa lo stesso? Beh, per un lato c’è comunque un punto immediato: nei mesi o anni in cui un progetto si ritarda, molti gas serra non vengono emessi. Poi, i progetti a cui ci oppone diventano molto più costosi e infine il ritardo può concludersi in cancellazione. Come nel caso della Keystone XL pipeline negli USA, a lungo ritardata per arrivare al blocco da parte del nuovo presidente Biden, il primo giorno che fu in carica.

Ci sono poi 16 casi in cui un progetto è stato effettivamente bloccato. Tra questi il blocco di molte centrali a carbone negli USA e in Germania, dove l’Alleanza per il Clima Germania è riuscita dal 2008 a bloccare 18 di 30 nuove centrali previste, evitando così quasi 95 milioni di tonnellate di CO2 emesse.

24 invece sono i casi in cui un movimento sociale ha contribuito a nuove leggi o regole. Gli autori evidenziano i casi della Repubblica Ceca, dove il movimento Limity jsme my (“Noi siamo i limiti”) è riuscito a impedire l’espansione di miniere di carbone, e del Perù, dove un ampio movimento di gruppi indigeni è riuscita a bloccare, dopo forti proteste, un decreto che avrebbe aperto la possibilità di vendere il 60% dell’Amazzonia peruviana ad aziende multinazionali.

Come si ottengono questi successi?

Nello studio gli autori hanno anche analizzato le strategie utilizzate dai movimenti. Fondamentale in quasi tutti i casi è stato utilizzare strategie multiple, che vanno dalla protesta alle attività di lobbying, passando dalla campagna mediatica, la disobbedienza civile, le azioni giuridiche e, in pochi casi, la violenza. La scelta di combinare diverse strategie, dimostra una valutazione statistica, è associata a una probabilità di successo superiore alla media, in particolare per raggiungere gli esiti di ritardo o blocco del progetto. Sia la disobbedienza civile che il lavoro di lobby sono strategie che rendono più probabile l’esito di un ritardo del progetto.

Va detto che in alcuni casi, in particolare quando si opta per la disobbedienza civile e quando chi protesta sono popoli indigeni, la probabilità di reazioni violente da parte dello stato è alta – ma frequenti sono anche i successi.

E in Italia?

Nessun caso analizzato nello studio purtroppo riguarda l’Italia, però se ci pensiamo bene anche qui ci sono degli esempi positivi. Il Movimento NO TAV è riuscito a far tardare una grande opera dannosa per decenni, il Movimento No Grandi Navi a Venezia è sicuramente riuscito a far accendere i riflettori sulla questione e le nuove regole adottate negli ultimi anni sono quantomeno un successo parziale. Il movimento contro l’ILVA di Taranto è riuscito a generare un forte dibattito a livello nazionale, come anche il movimento No Triv in Basilicata (questi due, tra l’altro, li conosceremo durante il Bike Tour della Decrescita quest’anno: https://www.decrescitafelice.it/2022/01/bike-tour-2022/).

Ed è sicuramente grazie ai Fridays for Future e Extinction Rebellion se la crisi climatica è finalmente diventata una priorità del dibattito pubblico mondiale.

Non saranno successi totali. Però guardiamoli in prospettiva: se non iniziamo da qui, da dove? E certo, ci vorranno anche decisioni politiche, cambiamenti culturali, dello stile di vita, di sistema. Ma i movimenti sociali, lo sapevamo prima ma ne siamo ancor più convinti adesso, sono una parte fondamentale di questo processo.

Non resta quindi che mobilitarsi, partecipare ai movimenti esistenti o fondarne di nuovi dove serve. Adottare strategie multiple. E lottare.