Traduzione di Federico Arcuri della recensione di Timothée Parrique al nuovo libro di Alessio Terzi, intitolato in italiano “La Crescita Verde”: A response to Alessio Terzi: Degrowth for good. Dismantling capitalism to save humanity from climate catastrophe,
Chi difende ancora attivamente la crescita verde? Ci sono vari autori e gruppi che continuano a sostenere questa idea. Andrew McAfee, con il suo “More from Less” del 2019, nonostante la sua fragilità scientifica (confutazione qui); Per Espen Stoknes con “Tomorrow’s Economy” del 2022 e il suo tentativo di rendere la crescita “sana e verde”. Sam Fankhauser si confronta con Jason Hickel, gli eco-modernisti del Breakthrough Institute, un piccolo gruppo di socialisti prometeici come Leigh Phillips (“Austerity Ecology & the Collapse-Porn Addicts”, 2015) o Aaron Bastani (“Fully Automated Luxury Communism”, 2020), e una moltitudine di magnati aziendali e burocrati che, senza mai riferirsi a studi scientifici, credono ancora che la crescita possa essere verde. C’è anche Alessio Terzi, economista presso la Commissione Europea, autore di “Growth for Good: Reshaping Capitalism to Save Humanity from Climate Catastrophe” (2022). In questo articolo, voglio rispondere a una serie di argomenti sviluppati in un capitolo di questo libro di Terzi intitolato “Post-Growth Dystopia”.
Alla decrescita manca un meccanismo di allocazione
Una delle critiche che Terzi muove alla decrescita è la seguente: La decrescita manca di un meccanismo di allocazione
Scrive Terzi che “sotto un sistema capitalista, i prezzi forniscono incentivi e segnali affinché questi continui problemi di allocazione siano risolti in modo decentralizzato […] Sotto l’ecosocialismo, tutto diventa invece un problema centralizzato di allocazione e deve essere risolto attraverso la decisione comune o un regolamento per tutte le situazioni possibili” (p. 68). Questo è un falso dilemma con solo due opzioni: mercati liberi che sono efficienti e democratici (capitalismo) contro una pianificazione centralizzata in stile sovietico che è l’esatto opposto. Il ragionamento (fallace) di Terzi è il seguente: se la decrescita critica il capitalismo, allora deve sostenere l’altra opzione ovvero quella della pianificazione totale.
Questa critica manca il punto. Innanzitutto, l’allocazione è un problema secondario per la decrescita, che si occupa principalmente di problemi di scala. Ricordiamo i tre obiettivi di Herman Daly: un’economia dovrebbe avere una scala sostenibile, una distribuzione giusta e un’allocazione efficiente (vedi Capitolo 5 di “Herman Daly’s Economics for a Full World”). Anche se si volesse argomentare che i mercati liberi sono il miglior meccanismo di allocazione (su ciò dirò di più poco più avanti), rimane comunque il fatto che un’economia che opera oltre la sua capacità di carico biofisica è destinata prima o poi a collassare. I dibattiti sull’allocazione non dovrebbero distrarre dal fatto che le economie capitalistiche avanzate attualmente soffrono di un problema di scala, cioè che comporta l’insostenibilità della loro impronta ecologica.
Il dibattito sulla scala ha due posizioni. O si dimostra che le nazioni ad alto reddito possono continuare ad aumentare i loro livelli di produzione e consumo rientrando nei limiti planetari (questa è la posizione della crescita verde), oppure si deve accettare che una certa riduzione delle attività economiche sarà necessaria (questa è la posizione della decrescita). Ho dedicato notevoli sforzi, sin dalla pubblicazione di “Decoupling Debunked” (2019), alla ricerca di questo dilemma e la letteratura scientifica sembra convergere verso un consenso critico sulla crescita, come esemplificato dai risultati dell’ultimo rapporto dell’IPCC. Essendo il mio lavoro quello di ricercare modalità per rendere le economie più sostenibili, sarei io il primo a gioire se riuscissimo a provare che la crescita economica non provochi problemi ecologici. Ma questo semplicemente non sta accadendo, come dimostrano un numero crescente di studi empirici che evidenziano qualcosa che non è affatto sorprendente: che produrre di più rende più difficile inquinare meno.
Ma torniamo al problema dell’ “allocazione”. Se il dibattito è ancora aperto sul ruolo dei mercati per la decrescita (per il mio punto di vista, vedi pp. 289-301 in “The Political Economy of Degrowth”), non mi viene in mente nessun studioso critico della crescita che sia a favore della loro totale abolizione. Ciò a cui la decrescita si oppone,in realtà, è solo la costante espansione del dominio delle merci. L’accesso ai beni e servizi di base (sanità, istruzione, abitazione, ecc.) non dovrebbe essere affidato ai meccanismi della competizione commerciale. Si potrebbero invece prevedere altre misure come regolamenti esterni come salari minimi e massimi, il divieto di pubblicità ai combustibili fossili, come recentemente introdotto ad Amsterdam, o la determinazione del prezzo del carbonio tramite quote energetiche negoziabili. Oppure l’accesso ai beni e servizi di base potrebbe avvenire cambiando certe regole all’interno dei mercati. Ad esempio, Jennifer Hinton difende una visione post-crescita dove l’allocazione è organizzata tramite mercati ma solo con “imprese senza scopo di lucro” (mercati senza profitti); Sophie Swaton propone un “Reddito di Transizione Ecologica” dato tramite un sistema di cooperative locali per l’occupazione (mercati senza relazioni di lavoro sbilanciate); inoltre c’è una varietà di monete alternative già in uso che ci può aiutare a rendere le dinamiche di mercato più eque e sostenibili (mercati senza denaro a uso generale). Poiché non c’è nulla nella letteratura sulla decrescita che indichi che i mercati come meccanismi di allocazione dovrebbero cessare completamente di esistere, criticare la decrescita su questa base è ingannevole.
Quello che Terzi critica in realtà non è la decrescita ma il socialismo. Ma anche quella critica cade nel vuoto. Dipingere la pianificazione come burocratica e antieconomica è un espediente tanto quanto dipingere i mercati come decentralizzati ed efficienti. Entrambi i meccanismi di allocazione, con i loro rispettivi punti di forza e debolezza, possono offrire un intero spettro di prestazioni. La vera domanda è se una certa modalità di allocazione sia appropriata per una certa situazione.
La maggior parte dei paesi vieta la compravendita di organi e permette invece l’acquisto e la vendita di calzini. I mercati non sono strumenti adatti per allocare organi e non c’è motivo urgente di pianificare attentamente l’economia dei calzini. Leggendo Terzi, sembra che le economie debbano scegliere tra total marketisation e total planning. Ma questa non è una partita di calcio. In pratica, le economie ospitano una diversità di meccanismi di allocazione e trovo di scarso valore questi dibattiti dicotomici su sistemi economici idealtipici che esistono solo nei libri di testo di economia.
E’ impossibile redistribuire la ricchezza senza crescita economica.
Un’altra critica che Terzi muove alla decrescita è la seguente: È impossibile redistribuire la ricchezza senza crescere. Scrive Terzi a questo proposito: “In un mondo in cui le risorse totali sono fisse, o addirittura in diminuzione, il guadagno di una persona è inevitabilmente una perdita per un’altra, portando la tassazione pericolosamente vicina a un gioco a somma zero. Il successo personale viene associato al sottrarre risorse a qualcun altro piuttosto che, magari, innovare e creare nuovo valore per la società” (p. 70).
Prima osservazione: gli ecosistemi essendo finiti, la loro condivisione è inevitabilmente un gioco a somma zero. Prendiamo la suddivisione del budget globale del carbonio. Per avere il 50% di possibilità di limitare il riscaldamento globale a 1,5°C, noi – come esseri umani – non dobbiamo emettere più di 380 GtCO2. Se un paese emette più della sua quota equa, significa che un altro paese non potrà usare la sua (stesso dilemma per l’acqua, i metalli rari, i minerali, ecc.). Torniamo al problema della scala. Le economie ricche stanno consumando risorse a un ritmo che mette in pericolo il funzionamento dei sistemi terrestri. Mentre alcune di esse sono riuscite a ridurre alcuni indicatori ambientali selezionati, nessuna è riuscita a portare la propria impronta ecologica totale sotto i limiti planetari sicuri – da qui la necessità di tirare il freno di emergenza.
C’è un altro problema con quella critica: essa suppone che le persone siano motivate solo dal diventare più ricche e quindi che un’economia che non premia gli individui con denaro sarebbe socialmente stagnante. Ancora una volta, questa non è una critica alla decrescita ma al socialismo. Personalmente, non ci credo. Se questa mentalità del denaro-fa-girare-il-mondo fosse inevitabilmente vera, Medici Senza Frontiere, Extinction Rebellion o qualsiasi altra iniziativa senza scopo di lucro non sarebbero mai esistite. La realtà è che le persone hanno varie concezioni di successo, molte delle quali vanno oltre il fare soldi. Gli scienziati vogliono scoprire nuove cose di cui sono curiosi, i commercianti vogliono vendere per fare profitto, gli attivisti ambientali vogliono bloccare le miniere di carbone per salvare il pianeta, ecc.
Il problema oggi è che agli incentivi finanziari (e alla ricchezza monetaria) viene data troppa importanza rispetto agli incentivi culturali/morali (e alla ricchezza sociale ed ecologica). Questa frenesia di fare soldi è il risultato di un sistema specifico in cui tutto può essere comprato e venduto e dove il potere deriva da quanto denaro hai. Una società in cui la maggior parte dei mezzi di sussistenza è mercificata rende le persone dipendenti dal loro potere d’acquisto individuale, che pre-determina cosa possono e non possono fare. Questo è il motivo per cui abbiamo così tante scuole di business e così poche scuole di poesia. In un sistema economico alternativo in cui tutte le persone hanno un accesso sicuro ai beni e servizi essenziali (sì, questo significa controllo dei prezzi), dove i lavori sono garantiti e dove le disuguaglianze sono tenute sotto controllo, l’equilibrio degli incentivi cambierebbe, e così anche il comportamento delle persone.
La decrescita è incompatibile con le libertà personali
Questo punto è sviluppato in 8 righe, il che ti dà un’idea della sua profondità (tutte le critiche di Terzi si estendono al massimo per alcuni paragrafi); ma parliamone comunque.
“L’ecosocialismo è incompatibile con la libertà personale […] e un governo forte, intrusivo, paternalistico e possibilmente illiberale sarebbe necessario per renderlo operativo” (p. 70). È “un modello di vita semplice imposto dall’alto” (p. 21).
Sarei curioso di sentire la definizione di libertà di Terzi (per leggere la mia, vedi The political economy of degrowth, pp. 252-259). Non serve essere sociologi per capire che il potere – e quindi la libertà – è relazionale. Come scrive Max Weber, “la probabilità che un attore all’interno di una relazione sociale sarà in grado di realizzare la propria volontà nonostante la resistenza.” Ho potere su qualcuno se posso farlo agire o pensare qualcosa che altrimenti non farebbe. Se ho molti soldi e tu no, posso farti fare qualcosa che altrimenti non faresti, come pulire la mia casa o abbattere una foresta. Se ho molta ricchezza, posso guidare le imprese (e talvolta i governi) a fare qualcosa che altrimenti non farebbero, come correre il rischio di bruciare vivi 18.000 mucche o tagliare le tasse per i più ricchi.
Il problema è che oggi la libertà dipende troppo dalla ricchezza e dal reddito. Alcune libertà sono messe all’asta attraverso il potere d’acquisto, dando a una minoranza della popolazione diritti di accesso sproporzionati a risorse scarse. Ad esempio, il 10% degli individui più ricchi sulla Terra (solo 780 milioni di persone) ha accesso al 48% del budget globale di carbonio. Se mai, dovrebbe essere il contrario: qualsiasi energia fossile bruciabile che ci rimane dovrebbe essere resa disponibile in via prioritaria a coloro i cui bisogni rimangono insoddisfatti, vale a dire la metà più povera dell’umanità (3,9 miliardi di persone) che attualmente accede solo al 12% delle emissioni globali. La libertà personale di viaggiare per il mondo su un jet privato, emettendo più di mille tonnellate di CO2eq all’anno, è ottenuta a spese di qualcun altro che non può accedere alla sua giusta quota del budget globale di carbonio. Nel gioco a somma zero dell’economia ecologica, la libertà di qualcuno di emettere di più è la non-libertà di qualcun altro di farlo.
Non cadiamo qui di nuovo in falsi dilemmi. La libertà è sempre inquadrata socialmente. Anche le forme più deregolamentate di capitalismo non tollererebbero eroina, omicidio e pornografia infantile. Indipendentemente dai miei desideri, mi sono negate certe libertà considerate politicamente dannose per gli altri. Gli ecosocialisti difendono il diritto delle specie e degli ecosistemi a non essere degradati, proteggendoli dall’ecocidio (un crimine che potrebbe presto diventare condannabile ai sensi della legge dell’UE), non solo per il loro valore intrinseco, ma anche per proteggere altri esseri umani il cui sostentamento dipende da loro (come nel caso di garantire una divisione equa del rimanente budget di carbonio). Questo non significa una perdita assoluta di libertà, ma semplicemente una ridefinizione dei diritti di accesso. Gli ‘alti emettitori’ perderanno certi diritti di consumo mentre i ‘bassi emettitori’ ne guadagneranno di nuovi; la nostra libertà complessiva di utilizzare le risorse naturali potrebbe diminuire, ma la nostra libertà complessiva di vivere in un ambiente non inquinato aumenterà.
Non puoi tenere le cose buone e buttare via quelle cattive
“Il livello di benessere raggiunto dalla società odierna si basa sulla complessità organizzata dal capitalismo in modo decentralizzato […] l’idea che possiamo prendere le parti che ci piacciono – assistenza sanitaria avanzata, istruzione di alto livello, innovazione tecnologica – perché ‘sono state raggiunte’, e semplicemente scartare il resto, è sbagliata” (p. 73). Siamo tornati al gioco a somma zero biofisica. Una cosa è certa: non possiamo avere tutto. E quindi, sì, dovremo necessariamente scegliere tra case più grandi, auto più grandi, aerei più grandi, bistecche più grandi, ecc. Un budget biofisico è come un conto in banca: puoi spendere solo quello che hai. Se ti rendi conto di aver speso troppo, allora è il momento di ridimensionare.
Questo è un argomento che sento spesso riguardo alla pubblicità. Non possiamo eliminare la pubblicità senza eliminare quei media che dipendono dai ricavi pubblicitari per sopravvivere. E invece sì: possiamo. Dobbiamo solo trovare un altro modo per finanziare questi media. Non è scienza missilistica e succede più spesso di quanto pensiamo. Guarda tutte queste città che stanno passando al trasporto pubblico gratuito (376 città in Francia). Si potrebbe pensare che una forma così estrema di controllo dei prezzi sia impossibile perché, beh, chi pagherà per le infrastrutture se non gli utenti? In realtà, il trasporto pubblico gratuito può essere finanziato in molti modi diversi, inclusi quelli in cui il servizio è effettivamente gratuito per gli utenti finali.
Le uniche tre cose di cui hai bisogno per far funzionare un’economia sono il tempo di lavoro, l’energia e i materiali. Il denaro non è un fattore di produzione; è solo un mezzo per accedere a tutte le cose necessarie per produrre. Trovo strano sostenere che dobbiamo produrre più SUV, pubblicità e bistecche (che sprecano una quantità enorme di tempo di lavoro, energia e materiali) per avere dentisti competenti, servizi sanitari adeguati e scuole funzionanti (che richiedono anche tempo di lavoro, energia e materiali). Dal punto di vista del gioco a somma zero dell’economia ecologica, è esattamente il contrario. Se vuoi una salute e un’istruzione migliori, devi mobilitare lavoro, energia e materiali, e in un’economia in overshoot ecologico, non potrai accedere a queste risorse se sono già monopolizzate per produrre auto che cambiano colore, telecamere per animali domestici e tostapane touch screen. Per avere il bene, devi eliminare un po’ del male.
Trovo la critica di Terzi sorprendentemente reazionaria. Come se le economie fossero come torri di Jenga a rischio di crollare se qualcuno cercasse di cambiare qualcosa. In pratica, le persone che possiedono aziende e le persone che le gestiscono, così come i governi, cambiano l’economia ogni giorno. La questione non è se progettare o meno le economie (tutto ciò che riguarda un’economia – tranne le risorse naturali che utilizza – è socialmente costruito), ma piuttosto come dovrebbero essere progettate le economie, da chi e per raggiungere quali obiettivi.
La dimensione internazionale
“Il compromesso con la decrescita porta, in un atto di auto-preservazione e contrariamente alla narrativa idilica, ad una visione del mondo ristretta e ad una chiusura verso il mondo esterno […] possiamo aspettare meno esposizione verso altre culture e possibilmente più xenofobia” (p. 75). Ancora una volta, rileviamo una mancanza di sforzo dietro alla critica fatta in questi due paragrafi, che regge soltanto in un riferimento veloce a The moral consequences of economic growth (2005) di Benjamin Friedman al quale si aggiungono tre citazioni grossolane di Frédéric Bastiat, Joseph Priestley e Montesquieu.
Il concetto di “décroissance conviviale” (decrescita conviviale) è emerso nel 2002 come una strategia per raggiungere la giustizia globale. La promozione della decrescita in un paese come la Francia non era una lotta egoista per la sopravvivenza, ma piuttosto un tentativo di liberare il Sud globale del “modo di vita imperialista” delle nazioni ricche che consumano in eccesso. Questo è ancora più vero oggigiorno. Il discorso della decrescita interagisce con un complesso “pluriverso” di visioni di prosperità e supporta delle forti politiche anticoloniali. Se non altro, è epistemologicamente molto più agile che la visione occidentale del progresso misurato attraverso il denaro che sta al centro della maggioranza degli approcci di “sviluppo sostenibile”.
A prescindere della vostra opinione sulla globalizzazione, questo non vi permette di evadere le leggi della fisica e della biologia. Dal punto di vista dell’economia ecologica, la scala di un’economia è definita dalle capacità di carico degli ecosistemi che la supportano. Questo principio si applica a tutte le culture e sistemi economici indistintamente. Dopodiché, non c’è una ricetta su cosa fare con queste risorse, eccetto forse concentrarsi sul benessere. Niente impedisce alle comunità di dedicare una fetta consistente delle risorse mondiali ai viaggi e ad organizzare eventi culturali in uno spirito di “localismo aperto”. In teoria, questo si applica anche ai viaggi aerei. Oggi, meno del 10% della popolazione mondiale viaggia in aereo, soltanto 2 a 4 % prende rotte internazionali e l’1% della popolazione mondiale è responsabile per il 50% delle emissioni del settore aereo. Se la vostra preoccupazione è il cosmopolitismo, il migliore modo di raggiungere questo obiettivo sarebbe di ridistribuire l’accesso al trasporto aereo al maggior numero di persone (un argomento socialista). Per farlo, abbiamo bisogno di viaggiare meno in aereo nel Nord globale in modo da permettere ad altre persone di prendere l’aereo (un argomento della decrescita).
La decrescita causerà un esodo di massa da “tutti coloro che non sono interessati a un simile progetto” (p. 76)? Questo è il buon vecchio spavento di Atlas Shrugged, una mossa classica del kung-fu neoliberista. Se provi a tassare i ricchi per investire nei servizi pubblici, se ne andranno e basta. Se provi a introdurre standard ambientali più severi, le aziende voleranno via come una banda di corvi. La realtà è meno degna di romanzo. La Nuova Zelanda ha introdotto i “bilanci del benessere” come alternativa al PIL nel 2019 senza creare molto scalpore. L’UE ha vietato la vendita di veicoli fossili nel 2035, il che non ha spinto Renault, Mercedes e Ferrari a trasferirsi nel Regno Unito. Inoltre, la questione non è se dovremmo o meno ridurre la produzione e il consumo nei paesi ricchi (abbiamo visto che questa è una condizione inevitabile per la sostenibilità). La vera domanda che noi economisti dovremmo porci è come organizzare una transizione ecologica efficace riducendo al minimo gli svantaggi (fuga di capitali, disoccupazione indesiderata, rischi di povertà, finanze pubbliche, ecc.).
“L’intera idea si basa su una lettura errata dell’economia globale come un gioco a somma zero. Perseguire un programma di decrescita nel mondo sviluppato porterebbe a un crollo del commercio globale, chiudendo la porta a qualsiasi speranza di crescita rapida nei paesi poveri, trasformando i miracoli economici in miraggi e costringendo milioni di persone a rimanere in estrema povertà” (p. 185). Questo è solo un altro spauracchio. Innanzitutto, come se la crescita economica nel mondo sviluppato stesse sollevando i poveri dalla povertà. Questo è l’argomento del “trickle-down”, un’altra favola neoliberista senza molta validità scientifica. Tra il 2010 e il 2020, solo l’1% dell’aumento della spesa mondiale è stato attribuito a famiglie estremamente povere. Ciò è vero anche a livello nazionale: in Australia, il 10% dei percettori di reddito più alto ha raccolto il 93% dei benefici della crescita economica tra il 2009 e il 2019. Le nazioni già ricche, e in particolare le loro classi superiori, si appropriano della parte del leone dei benefici finanziari, mentre spostano i costi ecologici sui paesi più vulnerabili: è chiamato scambio ecologicamente ineguale (per maggiori informazioni, vedere The Divide). Se non altro, consumare meno nel Nord del mondo in realtà attenuerà il pestaggio socio-ecologico inflitto da una minoranza di individui benestanti al resto del mondo.
La decrescita rallenterà l’innovazione
Argomentazione finale di Terzi: “Con le risorse sempre più ridotte a disposizione delle società e dei governi, e senza un meccanismo di allocazione efficiente per governare la complessità, l’ecosocialismo sarebbe incapace di sostenere tale meccanismo di conoscenza” (p. 78). Per Terzi, “l’unico modo credibile per evitare una catastrofe climatica è accelerare lo sviluppo e l’adozione diffusa dell’innovazione “verde”. […] abbandonare il capitalismo ci allontanerebbe ulteriormente dai nostri obiettivi climatici, gettando sabbia negli ingranaggi di un meccanismo di innovazione senza pari nella storia umana […] innovazione e crescita economica sono, di fatto, inestricabili” (p. 22).
L’innovazione è la nostra capacità di risolvere i problemi. Ma la definizione stessa di un problema è socialmente costruita. In un sistema economico in cui il guadagno guida l’innovazione, i problemi in cima alla lista delle priorità riflettono le esigenze dei più ricchi. Non vedo altre ragioni per cui stiamo sprecando i nostri migliori matematici nella progettazione di algoritmi di trading e i nostri comunicatori più creativi per trovare modi per ingannare le persone e convincerle ad acquistare auto inutilmente grandi. “La forza del sistema capitalista sul fronte dell’innovazione non è che crea più geni, ma piuttosto che è un principio organizzativo efficiente, che fornisce forti incentivi alle persone per sviluppare idee” (p. 147). Il capitalismo non fornisce incentivi alle persone per sviluppare idee, fornisce incentivi alle persone per sviluppare idee che possono vendere per denaro. C’è una differenza cruciale. Sono tutto per sfruttare al meglio la creatività umana, penso semplicemente che la definizione capitalista dell’innovazione sia troppo limitata, tralasciando una serie di innovazioni sociali ed ecologiche che dovrebbero essere considerate cruciali ma che al momento non lo sono perché non sono redditizie. Non si tratta di essere a favore o contro l’innovazione. La vera domanda è: su quale tipo di problemi dovremmo spendere le nostre limitate capacità di innovazione? Da una prospettiva ecosocialista, liberare la scienza e l’innovazione dalla necessità di essere redditizie libererebbe alcune delle nostre capacità di risoluzione dei problemi per alcuni progetti che sono stati trascurati dalla ricerca e sviluppo a scopo di lucro. E siamo di nuovo di fronte a un problema di gioco a somma zero. Per innovare, dobbiamo mobilitare risorse: tempo di lavoro, materiali incorporati in macchine e infrastrutture, nonché l’energia per farle funzionare. Oggi, gran parte di queste stesse risorse vengono utilizzate altrove, da qui la necessità di rallentare determinate attività per liberare risorse. Finché l’innovazione richiederà esseri umani e macchine, non potrà esserci “innovazione infinita su un pianeta finito” (p. 156). Questa è la visione della decrescita sul progresso tecnologico: non possiamo avere tutto e quindi dobbiamo scegliere (per un trattamento più dettagliato di questa questione, vedere L’economia politica della decrescita, pp. 338-350).
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In breve, ecco il modo migliore per riassumere la critica di Terzi alla decrescita. Il suo capitolo fa riferimento solo a sette testi sull’argomento, una comprensione piuttosto superficiale di una letteratura che abbraccia quasi 700 articoli. Terzi non fa differenza tra decrescita e post-crescita e confonde tutte le posizioni critiche sulla crescita con l’ecosocialismo, due approcci che in realtà si oppongono da due decenni. Il risultato complessivo è sciatto, più uno sberleffo che una critica vera e propria. Per aggiungere arroganza all’incompetenza, i suoi argomenti leggeri vengono lanciati con l’atteggiamento di superiorità di un economista saputello (le prime due pagine del capitolo affrontano la “pub economics of degrowth”, svergognando la decrescita come “economicamente analfabeta”, p. 17). Questo argomento di autorità potrebbe intimidire alcuni attivisti, ma non volerà molto lontano con una crescente comunità di economisti come me, il cui lavoro quotidiano è ricercare queste precise questioni.