Di Maria Elena Bertoli. Intervista pubblicata anche sul settimanale “Vita Nova” di Pisa.

 

“E’ impossibile una crescita illimitata su un pianeta finito”. Ne è convinto Mauro Bonaiuti, sessant’anni, docente di “Economia solidale e sostenibilità” all’Università di Torino. Mauro è stato fra i fondatori (ed è l’attuale Presidente) dell’Associazione per la decrescita. Allievo di Serge Latouche, è lo studioso e attivista italiano che, già nei primi anni Duemila, ha portato in Italia il pensiero della decrescita. Dopo aver tenuto un incontro molto partecipato a Lucca la sera del 24 marzo, nell’ambito del percorso I dialoghi della decrescita, Mauro ha pernottato a Barga e la mattina successiva, dopo una passeggiata per le vie del centro storico e una visita al Duomo, ci ha rilasciato questa intervista.

Da dove nasce l’idea e la parola stessa della decrescita? Quali sono le sue radici?
L’espressione decrescita è stata usata per la prima volta nel febbraio del 2002 come uno slogan provocatorio, una parola bomba “per rompere il consenso rassegnato all’ideologia dello sviluppo sostenibile”, come scrive Latouche nella Prefazione alla nuova edizione del mio ultimo lavoro La grande transizione. Il declino della civiltà industriale e la risposta della decrescita, che uscirà a maggio per Bollati Boringhieri. E’ importante ricordare che, oltre alla critica socio-antropologica allo sviluppo, portata avanti da un piccolo gruppo attorno ad Ivan Illich, l’altra radice importante della decrescita proviene dalla critica ecologica.

Cosa si intende per critica ecologica?
Negli anni Settanta è sorta una forte consapevolezza sul tema dei limiti alla crescita. Basti pensare allo studio del Club di Roma e soprattutto ai lavori di Georgescu-Roegen che avevano anticipato l’inevitabile natura entropica, dissipativa, dei processi di produzione e consumo. Un processo irreversibile che ci avrebbe portato a superare i limiti della biosfera, cosa che puntualmente è accaduta. Per quanto riguarda l’Italia, ad esempio, non sbaglia chi sostiene che oggi per rientrare entro i limiti biofisici avremmo bisogno di ridurre i consumi di circa il 70%. Come dice anche Papa Francesco nell’enciclica Laudato si’, una “certa decrescita” è dunque inevitabile. Parlare ancora di crescita verde e di sviluppo sostenibile è assurdo e non fa che alimentare una tragica illusione.

Si può dunque dire che decrescita significa sostanzialmente riduzione del PIL e dei consumi?
No, la decrescita non è banalmente la riduzione dei consumi ma è un vero e proprio cambio di paradigma, è un progetto di società alternativa, basata su valori diversi (condivisione, sobrietà, giustizia, autonomia) da quelli oggi dominanti. Per screditare il progetto della decrescita i media lo presentano come sinonimo di riduzione, scarsità, ritorno alle candele ecc., ma questo fa parte dello scontro ideologico, della necessità di delegittimare ogni alternativa che ogni sistema sociale porta con sé.  Altra cosa, invece, è saper riconoscere il declino di tempo lungo in cui le società capitalistiche sono immerse da ormai più di cinquant’anni. Questo declino non ha che vedere con l’ideologia, è un fatto. E poiché i fatti sono ostinati bisognerà prima o poi tenerne conto.

Dunque, la civiltà industriale è in declino?
Sì. Come cerco di spiegare ne La grande transizione, l’innovazione tecno-scientifica, il settore energetico, ma anche le grandi organizzazioni sociali su cui si regge il nostro sistema (sanità, istruzione, ricerca ecc.) sono entrati in una fase di declino – o più propriamente di rendimenti decrescenti – come è reso evidente dal fatto che le molteplici crisi (economica, sociale, climatica, pandemica, bellica) non trovano soluzione ma si susseguono ad un ritmo sempre più incalzante. Per quanto estraneo alla nostra cultura, dovremo adeguarci all’idea che il progresso tecno-scientifico – che ha dato origine alla civiltà industriale – è un evento singolare, soggetto a limiti, e che, a meno di eventi inattesi, rallenterà a poco a poco. E con esso i “margini di manovra” di cui godono le nostre società.  Purtroppo, di questo declino nessuno parla… è un vero tabù. Eppure, ignorare questo processo – come fanno media e il mondo politico – può essere molto pericoloso. Il rischio è quello di scivolare in un relativamente rapido collasso del sistema o trovarsi intrappolati in pericolose involuzioni tecnocratiche o autoritarie.  Del resto le tendenze di questo tipo, già oggi, non dovrebbero essere difficili da riconoscere. Occorre dunque accettare i nostri limiti e progettare una decrescita volontaria certamente ben più desiderabile dell’attuale decrescita involontaria, caotica e dolorosa.

Come dovrebbe svolgersi questa decrescita volontaria? Da quali misure o scelte politiche dovrebbe essere caratterizzata?
Non esistono ricette universali. Come dice giustamente il mio maestro Sergio Latouche, infatti, la decrescita è una matrice che va declinata in modo diverso in ciascun contesto storico e culturale. I valori che dovrebbero ispirarla, tuttavia, nel contesto delle nostre società, sono ormai abbastanza chiari. Anche sulle proposte politiche la decrescita ha ormai un suo programma (vedi www.decrescita.it), anche se le priorità, comprensibilmente, sono diverse. Il vero problema è trovare il modo di sganciarsi dal collare a strozzo che viene dalla nostra dipendenza dal denaro, cioè dal mercato, mentre ancora viviamo in una società di mercato.

Tu ritieni che le esperienze di economia solidale possano giocare un ruolo importante in questa trasformazione eco-sociale?
Sì. Io ritengo che le esperienze di economia solidale, o almeno quelle più radicali, siano la strada inevitabile da percorrere in questa fase di trasformazione: l’agricoltura contadina, le produzioni  biologiche, la permacultura, i GAS (gruppi di acquisto solidale), le CSA (comunità che supportano l’agricoltura), le reti e i distretti di economia solidale, le esperienze più radicali della finanza etica, le piccole cooperative che operano nel sociale o nel mantenimento dei beni comuni: si tratta di spostare la propria spesa verso queste realtà, in modo da coinvolgere fasce sempre più ampie di persone e dare vita a processi trasformativi sempre più ambiziosi. In tutto questo, un posto centrale spetterà alle comunità locali che sono il luogo più favorevole nel quale potranno svilupparsi questi processi trasformativi.

In ultimo, Mauro, ti chiederei qual è secondo te il ruolo delle tradizioni religiose – e in particolare del cristianesimo – in questo processo di cambiamento.
Su questo tema mi viene in mente una frase del grande teologo e monaco indu-cristiano Raimon Panikkar, che può essere considerato un precursore della decrescita, il quale diceva che “nella religione l’uomo dà il meglio e il peggio di sé”. Infatti, per quanto le tradizioni religiose abbiano contribuito per secoli ad alimentare divisioni, guerre e dominazioni, oltre che una visione patriarcale della società, tuttavia personalmente ritengo che esse custodiscano in sé il nucleo di una sorta di saggezza comune: l’amore, il rispetto dell’altro/a, la connessione di tutto con tutto, la sacralità della vita e di tutte le creature, il senso del limite, la frugalità, sono solo alcuni esempi. Dovremmo dunque trovare strade nuove per trarre alimento da questa saggezza comune. Si tratta nientedimeno che di reincantare il mondo e, in questo, il ruolo delle grandi tradizioni spirituali può essere molto importante. Ciò implica la liberazione dal giogo di un’economia volgare e oppressiva rispetto alla quale ogni cristiano dovrebbe nutrire un sentimento di naturale e sana estraneità. Mi stupisce sempre un poco, quindi, la tiepidezza con cui alle volte la Chiesa reagisce di fronte alla crisi ecologica e più in generale alle proposte di un cambio di paradigma. Raccogliendo il messaggio di Papa Francesco, mi sentirei di quindi di affermare: Coraggio! Un’alternativa esiste, percorriamola!