Ripubblichiamo l’intervista di Roberto Rosano a Serge Latouche, pubblicata su MicroMega.it il 30 marzo 2023.

 

L’economista e filosofo francese spiega perché è necessario decolonizzare l’immaginario economico per una nuova società.

Professor Latouche, in questi giorni abbiamo assistito a diverse proteste nel suo Paese. Contro l’innalzamento dell’età pensionabile, ma anche contro la costruzione di sedici bacini idrici sul territorio francese. Cosa ne pensa?
Questo progetto è emblematico, la negazione della vera natura della crisi ecologica da parte dei nostri governanti. Si tratta di una falsa terapia a breve termine, sortita dalle pressioni della lobby agroalimentare, che dovrebbe rimediare ai problemi dell’agricoltura industriale produttivista. Invece di incoraggiare gli agricoltori a cambiare il loro modello per affrontare il cambiamento climatico, stiamo spendendo ingenti somme per un progetto aberrante e assurdo.

Perché lo considera assurdo?
Assurdo perché questa costosa soluzione tecnica può solo prolungare di qualche anno un modello in declino. Assurdo anche perché il riscaldamento globale renderà molto complicato il riempimento di questi bacini e i contadini ne pagheranno le conseguenze più importanti.

Professore, le crisi che stiamo attraversando negli ultimi decenni, sono davvero state superate? L’impressione è che rimangano tutte drammaticamente aperte, anche se provvisoriamente attenuate. Perché?
Perché sono tutte legate alla società della crescita, dalla prima all’ultima. Rimarranno tutte drammaticamente aperte finché non si deciderà di superare davvero il paradigma neoliberista e uscire dalla società della crescita.

Perché Lei parla di “fortuna” in riferimento al collasso dell’Occidente. Pensa davvero che sia una fortuna?
No, faccio dell’ironia. Non dispero di questa situazione, ma non posso dire di non essere davvero preoccupato.

Che cosa la preoccupa maggiormente?
Non sta collassando soltanto l’Occidente. Con la globalizzazione ogni mondo è diventato «occidente». Spesso, siamo portati a pensare che vi siano Paesi in declino, come i nostri, e poi Paesi emergenti, che cavalcano l’onda del produttivismo, come la Cina. Non è davvero così. La crisi investirà tragicamente anche la Cina perché, le ripeto, ogni mondo è diventato «occidente». Quella che viviamo è una crisi della globalizzazione e del capitalismo.

Lei ha parlato in diverse occasioni dell’UE come un progetto di mercato europeo, incapace di fare il grande salto verso la vera Europa. Ha cambiato idea dopo iniziative come Next Generation Eu?
Rimango parzialmente scettico. Sicuramente la pandemia e la crisi ucraina ci hanno fatto fare molti passi avanti verso un’Europa politica e non più soltanto economica. Questi problemi hanno sicuramente contribuito a cambiare il software della Banca Centrale Europea, ma la logica ultraliberista, la logica della competitività, è ancora lì, a guidare le scelte dei governanti europei. Parlano di “concorrenza leale”, ma si illudono. La concorrenza non può essere né giusta né leale. È sempre una guerra di tutti contro tutti. Ora, possiamo dirci un po’ più europei, ma, come si suole dire: per forze e non per amore…
Sarà difficile mettersi d’accordo nell’Europa dei 27.

Lei avrebbe preferito un’Europa più piccola?
Sarebbe stato tutto più semplice. Non si può avere una moneta unica senza una legislazione fiscale unica. Abbiamo messo, come si dice in francese “la charrue avant les boeufs”.

Il nostro ex presidente del Consiglio, Romano Prodi, le direbbe che se non avessero fatto quegli allargamenti, oggi avremmo la Russia alle porte dell’Europa.
Nella storia, come sa, non ci sono evidenze contro-fattuali. Non sappiamo che cosa sarebbe accaduto se avessimo fatto scelte diverse. Romano Prodi, forse, non ha torto, ma rimango dubbioso.

Il rapporto di sintesi Ipcc 2023 sembra fotografare una situazione grave, ma la lettura che si è data sui giornali è che c’è una speranza. Abbiamo gli strumenti per intervenire. Lei ha qualcosa da obiettare su questa prospettiva?
Purtroppo non bastano gli strumenti, anche se ne abbiamo di efficaci e di importanti. Manca la volontà politica e la volontà popolare. Dobbiamo decolonizzare l’immaginario economico, creare una società alternativa alla sistematica distruttività ecologica della globalizzazione. Le parole d’ordine sono decrescita condivisa e localismo. Ripeto: bisogna cambiare il paradigma, la sostanza, non più solo la superficie delle cose.

Lo stesso rapporto auspica che il riscaldamento globale rimanga sotto la soglia di 1,5 gradi rispetto all’era preindustriale. Cosa pensa di questa stima?
La trovo ottimistica. Io sono sicuro che supereremo i due gradi alla fine del secolo, quindi ci saranno certamente disastri ambientali e guerre. Possiamo solo limitare i danni a questo punto e organizzarci. Dobbiamo realizzare la decrescita non più per evitare il disastro, perché ci siamo già dentro con tutte le scarpe, ma per organizzare quello che sarà il futuro dell’umanità dopo la fine del “mondo unico”.

Recentemente ho letto la sua introduzione a Ecologia e autarchia. 100 anni di genio italiano per la transizione economica (Libreria Editrice Fiorentina), di Marino Ruzzenenti e Giordano Mancino. Perché, secondo Lei, dovremmo rivalutare l’autarchia?
Il covid e la guerra in Ucraina hanno mostrato l’enorme fragilità della catena di produzione globalizzata. L’autarchia è spesso attribuita a Mussolini e, per questo guardata con una certa diffidenza, il ché è comprensibile, visti gli eccessi e l’orientamento alla guerra. Non bisogna dimenticare, però, che le stesse politiche autarchiche furono utilizzate da Roosevelt con l’obiettivo opposto: salvare la pace.

I suoi detrattori parlano della decrescita felice come di un’utopia, qualcosa di irrealizzabile, che porterebbe ad una recessione economica, con disoccupazione, perdita del potere d’acquisto dei salari, aumento della miseria e delle violenze sociali…
Insomma, com’è possibile orientare la produzione a logiche diverse dall’accumulazione senza limiti?
Come sa, io non ho mai usato la parola “felice” in riferimento alla decrescita. L’aggiunta di quell’aggettivo si deve a Pallante. Io parlavo di decrescita serena, sostenibile. È sicuramente un’utopia, ma non è vero che sia irrealizzabile. E poi, abbiamo bisogno di utopie come orizzonte di senso per uscire dalla disperazione del presente. I miei detrattori vivono ancora nell’immaginario dei “trenta gloriosi” anni di crescita. Non si rendono conto che quella è stata soltanto una piccola parentesi nella storia dell’umanità e del capitalismo. Una parentesi artificiale fatta di alta produttività, salari abbastanza alti per permettere agli operai di comprare le macchine che avevano fabbricato.

Sembrava la conciliazione di capitalismo e welfare… Un vero miracolo…
Ma si è trattato di un miracolo fondato sulla distruzione della natura e sullo sfruttamento dei Paesi più poveri. Questo miracolo ha consumato così tanta energia che, se domani fermassimo tutte le emissioni, non riusciremmo comunque a fermare l’innalzamento della temperatura. Ci vogliono almeno cinquant’anni!

Gli ottimisti sostengono che la dispersione energetica sarà bilanciata dall’uso di nuove risorse e da una maggiore efficienza nell’uso delle vecchie. Perché secondo Lei non è così?
Non dico che non sia così. Ci sono stati dei progressi nella eco-efficienza, ma non bastano. Il degrado dell’ambiente non è stato evitato. La seconda legge della termodinamica, quella dell’entropia, non può essere aggirata e ci ricorda tutti i giorni che il cambiamento è irreversibile.

Gli ottimisti dicono anche che lo sviluppo derivante dal progresso tecnologico e dalle nuove soluzioni, creerà un surplus da investire nell’ambiente, senza intaccare il trend di crescita… Questo è vero, parzialmente vero o totalmente falso, secondo Lei?
È parzialmente vero, ma ciò non basta. I nostri governanti sono diventati esperti nel cambiare le parole senza cambiare mai davvero le cose. Sono dei geni in questo. Hanno inventato prima lo “sviluppo sostenibile”, un ossimoro incredibile, poi la “crescita verde”, poi l’“economia circolare”. Noi francesi abbiamo un esperto in quest’arte di cambiare le parole per non cambiare le cose: il presidente Macron.

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