di Antoine Fratini e Mauro Bonaiuti

Si sa, per riprendere un felice titolo di Alan Ford, che “la paura fa spavento”! In questo caso trattasi ovviamente del timore del contagio da Covid-19, acronimo di Co (corona), Vi (virus), D (“disease”, malattia) e 19 (l’anno di identificazione del virus). Di fronte agli allarmismi mediatici e alle ripetute contraddizioni ed imprecisioni proferite dagli alti rappresentanti dello Stato, sarebbe ingiusto colpevolizzare troppo la popolazione per alcune reazioni abnormi. Da un lato, per numerosi Comuni del Nord Italia è stato dichiarato lo stato di quarantena onde frenare giustamente l’espansione del contagio, dall’altro la paura dei cittadini, accoppiata alle potenzialità delle nuove tecnologie, si diffonde molto più rapidamente del virus stesso. Così, nelle province limitrofe e anche più lontane dalle zone focolaio i supermercati sono presi d’assalto.

Asili, scuole e università chiuse… Il tempo, sino all’altro ieri tutto sacrificato “al sistema”, torna provvisoriamente nelle mani delle persone.  Come nelle domeniche a piedi successive alla crisi petrolifera del ’73, ci si ritrova all’improvviso in uno spazio altro, irreale, ma molto concreto. Uno spazio improvvisamente liberato che offre persino tempo per sperimentare un altro stile di vita improntato alla sobrietà, la responsabilità, la solidarietà, la riflessione.

Il rammarico è che questa condizione sia la conseguenza di un agente virale anziché di una scelta deliberata. In altri termini, si tratta effettivamente di una decrescita, ma di una decrescita involontaria, imposta e pertanto vissuta (come dimostra il flusso ininterrotto dei commenti mediatici più o meno allarmistici) negativamente.

D’altra parte non vi è dubbio che quella che si va delineando nelle zone colpite, dal punto di vista del vissuto collettivo, si configura come una vera e propria “prova di collasso”. Se questo vissuto di vulnerabilità avrà qualche effetto “pedagogico” (come ha teorizzato Serge Latouche con la sua “pedagogia delle catastrofi”) è presto per dirlo. Anche qui vi sono tendenze contraddittorie: il virus da un lato diffonde il timore e ci rinserra nelle nostre capsule individuali,  dall’altro estende in alcuni il senso e la volontà di collaborare per affrontare il comune pericolo. In ogni caso quello che queste giornate  ci insegnano, semmai ce ne fosse stato ancora bisogno,  è che la “realtà prima” (quella che possiamo conoscere direttamente, attraverso la nostra rete di relazioni) non ha più alcun peso rispetto alla realtà seconda (quella propagata dai media).

Di certo la narrazione della globalizzazione, del mondo come grande mercato aperto, che già dopo la crisi del 2008 era in grande difficoltà, sta ricevendo un ulteriore duro colpo: è ormai abbastanza evidente, nel sentire collettivo, che il libero mercato non lo vuole più nessuno.

Si tratterà semmai di capire quali saranno le conseguenze, anche economiche, di questa escalation nelle reazioni di chiusura. L’effetto combinato della paura del virus (aspettative in ribasso), della guerra dei dazi e dell’interruzione di alcune catene distributive dalla Cina, potrebbe infatti avere effetti reali tutt’altro che trascurabili sulla fragile economia globale.